Cominciamo dall’inizio del 2022, o meglio dalla fine del 2021. Esattamente dodici mesi fa lo speciale di Shoegaze Blog sui venti dischi più belli dell’anno si chiudeva in questo modo: «In attesa del 2022: molto presto ci sarà il ritorno degli Slowdive, mentre non scommetterei troppi soldi su quello dei My Bloody Valentine. Ma sperare non costa nulla». Amiche e amici, fare previsioni non è proprio il mio forte, nonostante un Oroscopo Shoegaze che continua a raccogliere un certo interesse tra le stravaganti stringhe di ricerca di Google. Per quanto riguarda gli Slowdive, ero sicurissimo che avrebbero pubblicato il nuovo disco nei primi mesi del ’22. E invece nulla: siamo ancora qui ad ascoltare Slomo e a farci venire i sospironi in preda alla sottile tortura di un’attesa infranta, come succede da ormai dieci anni con i My Bloody Valentine. Ecco, proprio loro. Sembrano finiti in uno stato di sospensione temporale in stile 1899, anzi direi 1991: ristampe su ristampe per soddisfare una domanda che pare senza fine e un’estetica ben codificata che ce li fa vedere ancora ventenni e rivoluzionari. Riformulo: un’estetica ben codificata che ce li mostra come li vogliamo ancora vedere.
I dischi vecchi sono belli, ma
Alzo le mani e mi dichiaro colpevole: la mania dei dischi vecchi l’ho cavalcata, la cavalco e la cavalcherò anch’io. Perché parlare di Loveless o di Spiderland è stimolante: gli album del passato non hanno solo una storicità che merita di essere riconosciuta, ma si portano dietro un vissuto personale che inevitabilmente è più vasto e sentito rispetto a ciò che può essere ricondotto a una canzone più recente. È un discorso che riguarda non solo chi scrive, ma anche chi legge. È un dato di fatto che gli articoli più commentati, condivisi e apprezzati di qualsiasi sito musicale sono quelli che riguardano gli album più amati dai lettori di riferimento. Ovvero, gli album del passato, non quelli del presente. È comprensibile, dato che l’anniversario di un disco è il compleanno emozionale della nostra esistenza: un evento che ci definisce per quello che siamo davvero (e che ci fa invecchiare di botto). Ma il destino della musica è di soccombere alla nostalgia canaglia? È l’algoritmo che ci fa girare intorno alla nostra adolescenza perduta? O siamo noi che non ci lasciamo incuriosire da ciò che è nuovo – da non confondere con ciò che è hype – perché preferiamo la dolce pigrizia dei ricordi?
Raccontare chi siamo oggi
Dunque si torna al punto di partenza: quest’anno non ci sono stati né Slowdive né – ovviamente – MBV. Ma ne sentiamo davvero la mancanza? La lista dei migliori album shoegaze del 2022 è un susseguirsi di piccoli grandi capolavori che raccontano chi siamo oggi, non chi eravamo ieri. E spiegano bene che cosa si intende per shoegaze: non la sterile riproposizione di antichi fasti, ma un suono inclassificabile per davvero. Sotto la stessa etichetta infatti troviamo per esempio Trentemøller, Supernowhere, Alvvays: tre progetti, tre modi diversissimi di raccontare un sentimento comune. Capisci dunque perché questo blog ama lo shoegaze? Ecco ciò che siamo: persone schierate dalla parte della bellezza, non della banalità. E allora buon 2023, shoegazer. Speriamo che sia bello davvero, senza più alcuna paura.
20. Stella Diana, Nothing to expect

Gli Stella Diana nel 2022 ci hanno fatto conoscere una nuova strada. Qualcosa di elaborato emerge dal nero assoluto di questo lavoro solenne: a tratti come farebbero i Dead Can Dance, a volte invece con la grazia disillusa di Ian Curtis. Mi hanno ricordato cosa potrebbe essere lo shoegaze: suonare e perdersi completamente, ammaliare attraverso i suoni e mescidare armonie con sentimenti puri. Matura la personalità di questa nostra grande band partenopea: dannata bellezza e voglia di percorrere affascinanti sentieri poco battuti. (Agnese Leda)
19. Daydream Twins, Daydream Twins

Nel loro disco d’esordio, i texani Daydream Twins ci accompagnano in un universo psichedelico dalla tavolozza dorata, illuminato da rintocchi shoegaze ed echi di nostalgiche tessiture dreamy, in cui convivono, in un trionfale rigoglio sincretico, Alvvays, Still Corners, Astrobrite, My Bloody Valentine e Lana Del Rey. (Giulia Quaranta)
18. Winter, What kind of blue are you?

Dondolandosi tra i chiarori dorati di dream pop e noise pop, senza disdegnare fuzz shoegaze e accenni brit pop e bedroom pop, Winter ci porta nel suo mondo acquerellato, pregno di un fascino mesmerico da scoprire poco a poco, senza fretta. In What kind of blue are you? la cantautrice losangelina incanala un’emozionalità straripante che profuma di autunno e di piccole cose belle. (Giulia Quaranta)
17. Virgins, Transmit a little heaven

Il dream pop assordante dei Virgins di Belfast conquista subito. I loro suoni catturano vorticosamente l’attenzione e non la lasciano andare. I muri di chitarre che tanto amiamo sono spessi e risonanti in forme e tempi imprevedibili e dinamici. Transmit a little heaven è un breve viaggio sonoro che sa soddisfare anche i gusti degli shoegazer più difficili da conquistare. È un invito a uscire a cui neanche il più introverso degli introversi può dire no. (Ilaria Sponda)
16. Kodaclips, Glances

Gli italiani Kodaclips ci hanno conquistati per l’ecletticità dei loro suoni e l’ottima sintesi di generi come psichedelia, stoner e progressive rock. L’autoproduzione del disco conserva l’intimità comunicativa dei brani. L’energia ritmica è l’elemento che fa da collante a suoni eterogenei che spaziano dallo shoegaze al math e post rock, tutti però grezzi e travolgenti, in stile anni Novanta. (Ilaria Sponda)
15. Knifeplay, Animal drowning

Questa band americana ha consegnato alla storia un secondo album, tra sublime slowcore e geniale impatto shoegaze. È riuscita a esprimere concetti di apatia e bellezza generazionale con giochi di chitarre pulite su sonorità cattivissime e distorte, grida di anime nei feedback smarriti e un cantato di preghiera tribale. Dalla musica quest’anno volevamo reazione, un charleston vivace che ci facesse saltare in aria insieme a chitarre che sentivamo solo negli anni novanta, di cui noi shoegazer continuiamo a sentire la mancanza. (Agnese Leda)
14. Lacing, Never

L’heavy shoegaze dirotta il nostro genere musicale preferito verso un versante più cupo, viscerale e, per l’appunto, pesante. Ma se è vero che lo shoegaze si presta alle contaminazioni, risulta difficile trovare band che sappiano dosare la componente metal, smussandone le asperità soprattutto sulla batteria e nel mix. Brani ruvidi come Days e Windswept riescono nell’intento, tra guitar noodling mesmerici, estasi carnali, fuzz e distorsioni esagerate da cui sbocciano melodie che sono una ventata di spleen in piena faccia. (Giulia Quaranta)
13. Dottie, Thief

La cara Dottie, dal Texas, quest’anno ci ha fatto girare la testa con il suo disco dream pop che si diffonde nelle orecchie con trama quasi orchestrale. È una musica ampia e sa riempire magistralmente gli spazi in un alternarsi di note basse e toni cristallini. L’artista non canta come farebbe qualsiasi dreamy girl, ma prende fiato con voce ipersensuale e fluida tra i riverberi. Un abisso avventuroso dilaga come magma che incendia foreste nere. Un album non per pochi o molti, ma quei tutti nascosti che amano il genere. (Agnese Leda)
12. Ohio Mark, Whoever

Ma che cosa ci fa qui un ep di un quarto d’ora? Ebbene, non bisogna per forza essere come i Beach House (chiaro: aiuta). I belgi Ohio Mark – come altre band in questa classifica – fanno quello che devono, ovvero il minimo indispensabile per ottenere il massimo possibile. Non c’è un calo di tensione, non c’è un momento morto, non ci sono riempitivi. Shoegaze lo-fi domestico ma non addomesticato, semmai furioso, malinconico e intransigente, come sa esserlo chi nella propria stanza si ritrova finalmente a tu per tu con le emozioni più vere.
11. Ex Girls, Possibilities

I milanesi Ex Girls si meritano un posto in questa classifica per il modo in cui intendono il dream pop. Non ci girano intorno cercando di imitare altri suoni, ma smembrano gli stilemi del genere e vanno al succo. Un succo dolce e aspro, dai colori vividi e dal sapore deciso. Possibilities è un concentrato di suoni dritti, aperti a diverse possibilità di intenti e soprattutto conciso. Un ep ben fatto che senza dubbio ci lascia assetati di nuova musica degli Ex Girls, soprattuto da fruire e gustare dal vivo. (Ilaria Sponda)
10. Cosmetic, Paura di piacere

Nel corso degli anni i Cosmetic ci hanno abituato a cambi di stile e prospettive, restando però sempre fedeli a loro stessi, e quando nel 2021 uscì il singolo La luce accesa – con i synth a dettare la linea al posto delle chitarre – fu amore al primo ascolto. Paura di piacere, un album che alterna indie rock e shoegaze, è l’ennesima conferma del perché riponiamo una fiducia infinita (e altrettanto affetto) nei confronti di questa band, che ha sempre seguito il suo istinto, in un equilibrio da funambolo tra la voglia e il bisogno di cambiare, a piccoli e studiati passi, così da non precipitare, per raccogliere alla fine di ogni fatica i meritati applausi. (Federica Palladini)
9. Japanese Heart Software, Soft

Puramente candy dream pop come la foto in copertina che ritrae una colorata torta zuccherina. Di quest’album gioiosamente tenero e glicemico ricorderete i due singoli, l’andate Passenger e la tenerissima Soft. Farcita da un’ottima base ambient elettronica con synth e decori di chitarre, la torta musicale dell’australiana Japanese Heart Software finisce in classifica proprio per la sua forma dreamy che ben definisce il genere: al top il pezzo Just a dream. Volete prendere per la gola giovani e delicati partner? Quest’album è un bel dono per aspetto e sostanza. (Agnese Leda)
8. Just Mustard, Heart under

Quando abbiamo parlato per la prima volta degli irlandesi Just Mustard qui su Shoegaze Blog avevamo già la sensazione che questa band avrebbe fatto tanta strada. A distanza di tre anni, eccoci appunto qui a parlarne e inserirli anche nella top 20 dell’anno. Il tanto atteso Heart under, dall’estetica cupa, notturna, e al contempo eterea, non ha deluso le aspettative. Un album coeso, dinamico e pieno di intrecci noise che fanno di ogni loro brano una trance ipnotica e magnetica. (Ilaria Sponda)
7. Beach House, Once twice melody

Con Once twice melody il duo mistico di Baltimora si è riconfermato master of dream pop, oscillando tra diverse temporalità, il contemporaneo e gli anni Ottanta. Belle canzoni, sempre coerenti a ciò che sono i Beach House: il loro suono esatto, inconfondibile e appassionato. Per me il disco è come un’antologia poetica sonora da ascoltare in ordine casuale. Un po’ come quelle serie interattive dove chi guarda si costruisce una narrazione tutta sua. Premi play e fatti trasportare nella tua storia. (Ilaria Sponda)
6. Supernowhere, Skinless takes a flight

Ci vuole del tempo per riuscire a cogliere l’intera tavolozza sonora di Skinless takes a flight degli americani Supernowhere, un disco che procede per addizioni coraggiose, andando via via a creare una Wunderkammer di math rock, dream pop e post punk, senza disdegnare suggestioni jazz e noise. (Giulia Quaranta)
5. Deserta, Every moment, everything you need

Se Black aura my sun ci aveva fatto sussultare con le sue ariosità dream pop a-là M83, in Every moment, everything you need il californiano Deserta ha reso la sua formula sonora ancora più strutturata, spingendola verso climax di incontaminata bellezza. Tutto sembra essere avvolto da un candore adamantino, grazie a canzoni che hanno l’andamento irreale e lisergico del sogno. (Giulia Quaranta)
4. Aerofall, Rh

La caratteristica migliore dei russi Aerofall è il contrasto stridente e dunque perfetto tra la voce in slow motion di Yana Komeshko – sembra quasi che il suo timbro smussato, profondo e ipnotico sia dotato di un riverbero reverse naturale – e la musica che brucia i suoni ad alta velocità: prova ad ascoltare Loose ends e balla – o poga – con loro. Rh è un disco di shoegaze suonato al massimo volume e col massimo impatto: imperdibile.
3. Alvvays, Blue rev

Questo infervorato disco si è fatto spazio nel 2022 per la sua trascendenza nei confronti del tempo, qualcosa che va oltre la nostomania degli anni che furono: parla al presente e guarda al futuro. I ritornelli e lo scanzonato approccio dei canadesi si agganciano a soluzioni twee pop caratterizzate da innocenti frenate e cariche ripartenze. Tutto quello che serve insieme all’alienazione di synth metropolitani che ricordano intricate sfumature sonore vagamente nineties – ma rielaborate e rese assolutamente contemporanee – da far esplodere nel vostro sistema uditivo a tutto volume. (Agnese Leda)
2. Sweet Homé, Advice

Sweet Home o Sweet Homé? L’accento non salva comunque la band dalla spietatezza della dittatura digitale della seo: per scovarli su Instagram serve un social media manager, per trovarli su Google serve qualcosa di simile a un sensitivo. Però quando la poesia riesce a farsi strada tra gli algoritmi, il suono occupa la scena nel solo modo che conta: emozionando. Dunque Advice è riassumibile così: indie rock trasfigurato shoegaze, magliette sudate, giovinezza perduta. E ritrovata.
1. Trentemøller, Memoria

Per descrivere che cosa fa Anders Trentemøller si può prendere in prestito un pezzo degli Arcade Fire, No cars go, che racconta ciò che avviene di notte nel momento che intercorre tra il clic della luce che si spegne e l’inizio dei sogni. Ecco, è proprio in quel segmento temporale senza contorni che le canzoni del musicista danese trovano campo libero: Memoria è una bellissima raccolta di post punk, shoegaze, electro e dream pop, categorie tanto vaghe quanto necessarie per intercettare una grammatica sonora sfumata, composta in prevalenza da rarefazioni, malinconie, crescendo fragorosi e tensioni ritmiche. È un disco formidabile di un Trentemøller mai così a suo agio e in controllo della situazione: un album lungo – oltre un’ora – senza tempi morti, giri a vuoto, trucchetti e stanchezze. Ma che musica, maestro.