Il nuovo album degli Stella Diana è una sorta di disgregazione sonica. Un buco nero più che una supernova. Nothing to expect è un lavoro forte, intransigente e coeso, una declinazione in mille modi diversi del verbo sottrarre. Perché il gruppo simbolo dell’italogaze rallenta il ritmo e vira verso un incrocio tra dream pop e post punk, aprendo voragini anziché provocando valanghe, dialogando con il vuoto anziché battagliando con il noise. L’umore è ultra dark come la copertina, insomma. Il titolo però inganna, perché sotto la coltre sottile di questi suoni taglienti e glaciali ci si può aspettare di tutto. Tra cui le Warpaint, qualche satanasso e persino un po’ di risate. Se ne parla con Dario Torre, cantante e chitarrista.
Bisogna abituarsi a nuovi schemi
Dario, nelle note d’accompagnamento al singolo Sleepless girl dici che «in questo nuovo album abbiamo provato a creare la colonna sonora di qualcosa che finisce, qualcosa che non può esserci mai più». Qual è il destino degli Stella Diana?
«È qualcosa che riguarda più che altro le vite di ognuno di noi. Io ora abito a Milano, ho messo un punto a tanti discorsi nella mia vita. Anche la band non sarà quella di prima, proprio perché non vivo più a Napoli. Bisogna abituarsi a nuovi schemi».
Cioè?
«Non lo so, intanto il problema è che non proviamo. I pezzi sono nati tra febbraio e giugno del 2021, nel periodo precedente al mio trasferimento a Milano. Questo è un disco che non poteva essere diverso da come è. È scuro, compresso, ma non depresso. Lo senti chiuso, molto chiuso. È stato fatto appositamente così. Adesso mi mancano quelle due ore settimanali in cui mi allontano dai problemi. Ho una carenza musicale che non riesco a sfogare».
Come ti trovi a Milano, che solitamente è amata oppure odiata, senza mezze misure?
«È una metropoli che dà, spero che ricominci a dare quello che dava prima. Ho trovato un posto stimolante, nonostante il momento sfigato: non è passiva. Non ho mai pensato che fosse una città triste e nebbiosa, sono luoghi comuni. Sarà che non frequento molto il mare quando sono a Napoli».
Fa strano sentirlo dire da un napoletano, ma d’altronde io sono nato a Palermo e quando ci torno faccio esattamente come te.
«Ho tante cose da fare quando sono a Napoli, non me ne frega niente del mare».

Il titolo che storia racconta?
«Nella scena della lettera in Totò, Peppino e la… malafemmina, Totò alla fine chiede a Peppino se vuole aggiungere qualcosa alla missiva. Lui risponde così: “Senza nulla a pretendere”. Ecco, ogni volta che componiamo un pezzo, ci guardiamo e ci chiediamo se va bene: la risposta è sempre quella, “senza nulla a pretendere, dovrebbe andare bene”. E l’unica formula per tradurlo in inglese è “nothing to expect”».
Questa è una sorpresa.
«Totò a parte, il senso del titolo è che non bisogna aspettarsi nulla quando si suona perché le aspettative non servono a niente. Si deve lavorare e basta. Credere sempre in ciò che si fa».
Tu da sempre inserisci un sacco di citazioni nei tuoi pezzi. Per esempio, A new hope non può che essere un riferimento a Star Wars.
«È stata una scelta di Giacomo (Salzano, basso) perché conosce i miei gusti. Matthew è il nome sia del bimbo di Giulio (Grasso, batteria) sia del protagonista di The dreamers di Bertolucci. Tra l’altro film gradevole, anche se molti storcono il naso. Marianne invece è una citazione di un racconto di Anaïs Nin, contenuto nel libro Il delta di Venere. È un brano vecchissimo: non mi è mai piaciuto come è stato inciso in passato e volevo che fosse registrato con il suono che abbiamo quando la suoniamo live».
Il più demoniaco dei titoli degli Stella Diana
C’è una traccia che si intitola Beleth. Per caso sei un satanista?
(ride) «Ho studiato esoterismo, ma non vado a fare le messe nere, pur vestendo di nero. Ho una visione delle cose che cozza con quella classica che si ha del demonio. Ho sempre messo riferimenti in tal senso, anche in 57, che forse è il più demoniaco dei titoli degli Stella Diana».
Parliamone.
«5 e 7 sono i numeri di Baal e di Asmodeo, che sono due dei vassalli di Lucifero, per l’esattezza sono il quinto e il settimo luogotenente. All’interno della confezione dell’album ho messo come sfondo l’unione dei simboli di entrambi».
Non è che suonandolo al contrario viene fuori qualche messaggio subliminale?
«No, assolutamente (ride). Comunque i demoni non sono brutti come si dipingono nella tradizione ebraico-cristiana. Satana rappresenta una forza della natura, non c’entra niente con il diavolo della Bibbia. Le forze positive e negative devono esistere. Semmai il diavolo è l’uomo. E anche Beleth è un demone, ma il titolo non ha nulla a che vedere con il testo. Peraltro è l’unico pezzo post punk del disco».
In effetti ci sento molto gli U2.
«Certo che sì. Me ne sono accorto dopo di queste chitarre alla The Edge, a me lui piace. I primi dischi hanno suoni spettacolari. Poi si sono persi ma vabbè».

Il brano più bello è In abeyance.
«L’abbiamo scritto tanto tempo fa io e Giacomo. Eravamo soliti comporre a casa mia, a Napoli: Giacomo si sedeva su una sedia di metallo che solo lui poteva sopportare e componeva giri di basso di alto livello. Venne fuori un mood molto scuro, lento, con una chitarra minimale. Rimase in un cassetto per anni, ma ci sembrava opportuno inserirlo in questo disco, che è quello più dark degli Stella Diana».
Il verso finale riassume tutto il lavoro, quando canti «it’s cold, always».
«Ha un’apertura incredibile, ma è una falsa apertura. La canzone prova a scuotersi, però non c’è luce».
In Matthew si sente la voce di Vanessa Billi dei We Melt Chocolate.
«Non volevamo aprire con una traccia che avesse il solito mood. Matthew è un pezzo che apparentemente non c’entra nulla col resto. Mentre ascoltavamo il demo, ho pensato di inserire la voce di Vanessa. E lei ha tirato fuori questa performance che ha ingentilito l’arrangiamento e ha dato un colore diverso al tutto. Matthew peraltro l’ho composta durante le feste durante le feste di Natale».
Quella che si dice la classica canzone natalizia.
«Ma proprio tanto natalizia (ride). A me Napoli esaurisce nel periodo di fine anno».
C’è un tour in vista?
«I locali sono pieni di concerti in programma, tutti devono esibirsi e ci sono liste infinite. Per il momento suoneremo l’8 aprile al Bellezza a Milano e il 9 allo Ziggy di Torino. Non ho fretta, la promozione del disco dura molto tempo, per me il tour può iniziare anche dopo l’estate, queste canzoni le porterò in giro per due anni».

So che hai aggiornato la pedaliera.
«Da sinistra, un chorus Digitech, due delay Dd3, uno lungo e uno corto, all’occorrenza un terzo delay della Donner, un riverbero artigianale con le Warpaint raffigurate (che ho ideato graficamente e che ho fatto realizzare in Spagna) e un Tube Screamer».
Le Warpaint sanno del tuo pedale?
«Sono l’unico ad averlo sulla faccia della terra, neanche le Warpaint ce l’hanno. Da due anni sto provando a mostrarlo alla band: la più social è la bassista, l’ho taggata ma mi ha risposto su altre cose. Quando verranno a suonare a Milano mi presenterò tenendo il pedale e farò la foto con loro».