Quando ho ascoltato per la prima volta i Joy Division avevo circa diciassette o diciott’anni, dei bastoncini incastrati male al posto delle spalle e una timidezza formato famiglia che mi tratteneva il fiato ogni volta che mi ritrovavo a tu per tu con il mondo intero. Erano per me gli anni del rock declinato humbucker: ovvero, distorsioni come napalm. Andando avanti a pane e grunge non riuscivo proprio a trovare interessanti i Joy Division e il tanto celebrato Unknown pleasures. Ci volle del tempo per entrare dentro questi arrangiamenti scheletrici che non lasciano appigli a una disperazione facile – cioè comprensibile nella propria drammaticità, dritta al punto e senza sfumature – e che ribaltano la prospettiva mettendo a nudo la sola verità che a un certo punto s’incolla alla tua esistenza: non avrai mai un tuo posto nel mondo. Lo canta chiaro e tondo Ian Curtis all’inizio di Disorder, traccia numero uno di Unknown pleasures, una canzone che ha raccontato con largo anticipo un quarantennio di inquietudini senza nome e di esistenze fragili braccate dall’horror vacui: “Ho aspettato che una guida venisse a prendermi per mano, possono queste sensazioni farmi sentire i piaceri di un uomo normale?”. Di fatto, non una riaffermazione ostinata della propria unicità, quanto la struggente domanda di chi non trova un proprio spazio nella tensiva e meccanica quotidianità contemporanea.
Era il nostro secondo maledetto album. Ma lui si è impiccato un po’ prematuramente. Non si dovrebbe scherzare su queste cose, ma… (Bernard Sumner).
È interessante scoprire come la verità intorno a Curtis sia un mistero anche per i suoi stessi compagni di band. La frase di Sumner riportata qui sopra – raccolta nel 2018 da Uncut – va presa per ciò che è: un’ironia amarissima per quello che i Joy Division avrebbero potuto raggiungere e che il suicidio di Curtis (avvenuto il 18 maggio 1980 alla vigilia dell’uscita di Closer, il secondo e ultimo disco della band) ha irrimediabilmente cancellato: la morte del cantante ha privato i Joy Division del proprio futuro mandandoli paradossalmente nella leggenda senza nemmeno passare dal via. Ma come si sia arrivati a quel punto di rottura così estremo e senza ritorno il gruppo ancora oggi non lo sa. “Eravamo davvero una band, ma non lo eravamo sul serio – ha raccontato Sumner – Stavamo registrando il nostro disco e non ne abbiamo davvero parlato. Il che immagino abbia contribuito al suono piuttosto insolito che ci è venuto in mente. Nessuno si sedette dicendo: «Hai letto i testi di Ian, sono un po ‘…», perché era un ragazzo normale e felice. È stato molto difficile parlare con Ian di cosa poteva e non poteva gestire. Non ne avevamo idea, non lo conoscevamo da tanto tempo. Non sapevamo che si stava avvicinando al suo punto di rottura”. Lui, Curtis, giocava a nascondino con le sue parole: “Non scrivo di argomenti particolari, scrivo a un livello inconscio“, disse al magazine Sounds nel ’78. Eppure sembra impossibile pensare che sia tutto lasciato al caso o all’ispirazione del momento. “Madre, ho provato, credimi, sto facendo il meglio che posso, mi vergogno di ciò che ho passato, mi vergogno della persona che sono”, canta Curtis in Isolation. I suoni inaspettatamente leggeri di quel brano sembrano allontanare di milioni di chilometri il cantante dal resto del gruppo. Una distanza che si farà poi incolmabile. E i vuoti d’aria dei brani marziali e senza luce di Unknown pleasures e Closer finiranno per descrivere quel buco nero nel cuore di Curtis che, alla fine, ha inghiottito ogni suo respiro, ogni sua lacrima. Sumner l’ha poi spiegata così: “Non riesco più a stringere vere amicizie, perché quasi tutti quelli a cui sono stato veramente legato sono morti”.