Intervista: Cosmetic. Il difficile settimo disco

Quando un anno fa i Cosmetic hanno battuto un colpo con La luce accesa, è parso chiaro che fosse in atto un’evoluzione sonora imprevedibile: niente Jazzmaster né Mustang, solo synth a dettare la linea di un pezzo mai così melodico, almeno da quelle parti. Il singolo successivo, Morsi, ha ribadito il concetto, migliorandolo ulteriormente: un dream pop di piccole vertigini ritmiche e di ampi baratri armonici che inghiottono le nostre inquietudini, un saliscendi molto forte che sembra dire addio a quella formula di indie rock e shoegaze che per una ventina d’anni ha scandito il racconto di una storia laterale rispetto al mainstream, ma parecchio importante per chi preferisce l’alternativa allo status quo. In realtà il nuovissimo Paura di piacere riallinea il discorso e rimette in posizione la band sulle sue consuete prospettive, un rock che pare unire Arcade Fire e Drop Nineteens, con testi chiari, diretti, empatici. Se ne parla con il cantante e chitarrista Bart, che a un certo punto spara la sorpresa: è l’ultimo album. Oppure no?

Quando vi ho visti al Bellezza di Milano qualche giorno fa ho notato un nuovo batterista e ho pensato: «Ecco, Bart l’ha fatto ancora, un altro cambio di formazione».

«Ma no, nessun cambio, è stata una sostituzione temporanea».

Sei come un presidente di calcio mangiallenatori.

(ride) «Vaffanbagno».

Che cosa cerchi in un musicista?

«Deve essere un amico. E avere gli stessi gusti. Una questione di feeling. Non li ho mai cercati. Queste collaborazioni nascono da qualcosa che era già sul percorso. Tutto molto naturale».

Perché questo titolo, Paura di piacere? Temi di diventare commerciale?

«Era per giocare, per dire senza dirlo esplicitamente che questo è il disco pop dei Cosmetic. C’è una componente più comunicativa».

Un classic Ligabue-Springsteen, secondo Alessandro Raina

So che temevi che potesse essere apprezzato da un pubblico “di zie”. Testuale.

«Questo è successo soprattutto per un brano, Anni 90. Siamo stati per mesi in balia di sensazioni opposte, del tipo “La mettiamo? Sì dai”, oppure “Meglio di no”. L’ho fatto anche sentire ad Alessandro Raina».

E che cosa ha detto?

«Che secondo lui è un classic Ligabue-Springsteen (ride). Quanto basta per non metterlo in scaletta. Lui però poi mi ha consigliato di inserirlo: “Dai, fregatene, lascialo nell’album”».

Pronti per Campovolo, insomma.

«Magari».

Nel testo fai un elenco di gruppi anni Novanta, ma ne mancano due tra quelli che amo di più: Smashing Pumpkins e My Bloody Valentine.

«Quei riferimenti sono validi per tutto il vecchio gruppo di miei amici anni Novanta. I Pumpkins qualcuno li ascoltava già allora, i My Bloody Valentine nessuno. Io stesso ho iniziato ad ascoltarli nel 2003». 

Come mai ricordi la data?

«Perché è stato l’ultimo disco che ho comprato al Good Vibrations, un negozio di dischi di Rimini, che chiuse quell’anno. I Valentine me li consigliò il tizio che lavorava lì, me li descriveva come la versione più psichedelica dei Sonic Youth. Presi Loveless».

Cos’erano per te gli anni Novanta?

«Quello che dice il testo: i Green Day, i Nirvana, i Primus, le Beck’s calde nel baule, le feste nel boschetto del paese». 

«Premi tu il grilletto e io comincio a fatturare», canti in quel brano.

«È un verso un po’ scherzoso, si riferisce al fatto che ormai per fare soldi devi parlare un linguaggio morto, già sentito, trito e ritrito. Qualcosa di rassicurante, che non sia di rottura. Il tempo che passa uccide ogni cosa. Però per noi il fatto di dirlo è una consapevolezza in più». 

La scelta dell’autotune in Zucca di chi è?

«Mia. Il brano ha un sentimento un po’ power pop, quindi volevo fare qualcosa che fosse tipo i Weezer ma con l’autotune. All’interno del gruppo erano tutti entusiasti, il che mi ha stupito, mi aspettavo una levata di scudi».

Paura di piacere viene presentato come un disco pop ed estroverso. È davvero così?

«È qualcosa che abbiamo sempre tentato di fare. Non abbiamo mai voluto fare gli introversi. D’altronde il secondo album inizia con Bolgia celeste, se non è pop quella… Anche i due singoli di Paura di piacere, che sono senza chitarra, si caratterizzano soprattutto per il testo, c’è quasi un lato da cantautore. Le strofe e ritornelli sono espliciti, dritti al punto, si capisce tutto. È qualcosa che ha influenzato il resto del disco. Morsi poi mi piace particolarmente da suonare».

Veramente vuoi che facciamo un ottavo album?

Che cosa ci dicono La luce accesa e Morsi del futuro dei Cosmetic? Ci saranno sempre più brani senza chitarre ma pieni di tastiere?

«Chissà che cosa accadrà. Ma veramente vuoi che facciamo un ottavo album? Sono troppi!».

Quindi questo è l’ultimo disco della band?

«Lo spero sinceramente!».

Non fare così.

«Anche sette sono troppi. Personalmente non ascolto mai il settimo disco di un gruppo. Nemmeno dei Deftones».

Il settimo dei Beach House è molto bello.

«Hai ragione, lo conosco a memoria. Anche Sonic Youth, Ariel Pink, Raveonettes… Ecco, gli ultimi dei Raveonettes sono i migliori».

Pure il settimo disco dei Cosmetic è bello. Lo conferma Rockit.

«Siamo stati contenti. Non ce l’aspettavamo». 

Avete ancora qualcosa da dire.

«Ma sì, ne possiamo fare altri. Lo sai da cosa capisco il tempo che passa? Io ho sempre scritto il 100% dei pezzi, mentre in questo il 60% delle musiche è di Straccia».

Per te che cosa significa?

«Che forse per avere un lavoro fatto solo da me avremmo dovuto aspettare di più: vado più lentamente rispetto a prima, lui invece è un vulcano. Zucca, Anni 90, Aquila, Laccio d’amor. Sono sue e sono canzoni forti». 

Ti senti sgravato dalla responsabilità di guidare la band?

«Straccia è arrivato a film iniziato, ma sono passati già sei anni, quindi penso che sia soddisfacente per lui suonare musica sua. Dà un coinvolgimento maggiore pure per gli altri, che si sentono più coinvolti in una situazione un filino più democratica. A me piace molto questo aspetto, mi sorprende positivamente suonare quelle canzoni. Sarà che non ci ho messo mano e quindi suonano più fresche alle mie orecchie rispetto a quelle che compongo io».

La copertina com’è nata? Mi ricorda un po’ la sigla di American Gods.

«Non conosco questa serie. La prima volta abbiamo discusso della copertina durante un pranzo con Gianluca Valletta, collaboratore da un po’ di anni. Mi ha detto che pensava di realizzare un totem con degli animali citati nel disco. Io ho insistito sul fatto che non fosse né esclusivamente una foto né esclusivamente un’illustrazione. Dunque le linee guida erano di fare una foto a un ambiente con un’illustrazione al centro. Così ha realizzato un totem di legno. Per assurdo, è venuto così bene che sembra un lavoro di grafica. Ce lo siamo portati sul palco, pensando che la gente si sorprendesse del fatto che fosse di legno, ma ovviamente non importava a nessuno. In generale ci sembra un’immagine azzeccata, perché ci dà uno sguardo su un mondo un po’ misterioso e un po’ pop. Ci premeva comunicare questa commistione».

Lo venderete su Ebay?

(ride) «Sarebbe bello. A questo giro esagereremo. Ci sono ragazzi che hanno realizzato pure una mia action figure».

Mi prendi in giro?

«Non è la Mattel, sono dei pazzi indie di Cremona, si chiamano Siamese Jumbo».

Vedo che sei tra Federica Sciarelli e il compagno di merende Mario Vanni.

«Dietro la chitarra del mio alter ego c’è anche un messaggio nascosto, che non posso dire qual è».

Riguarda un noto politico di destra che non ti sta particolarmente simpatico, diciamo così?

«Esatto (ride). Ma non finisce qui».

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Cos’altro c’è?

«Con Red dei Mondaze stiamo realizzando un overdrive/chorus che uscirà fra poco, si chiama Liquid dream. Io volevo un suono overdrive tipo Boss, lui voleva ispirarsi a un modello più blasonato. Siamo in attesa dei componenti, ci sono ritardi. Gli ho chiesto di mettere il chorus prima dell’overdrive, che è una cosa tecnicamente sbagliata da fare, ma fa parte del mio suono. È il suono di Colonne d’errore, per dire».

Il nome Cosmetic esiste da un paio di decenni. È un risultato non scontato in ambito alternativo.

«Non posso fare diversamente da ciò che faccio. Spero che serva a far vedere che certe cose rimangono vive anche se non diventano commerciali».