Perché il 1991 ha reso migliore la musica che ascoltiamo

My Bloody Valentine

Il botto del 1991 non lo avverto proprio. D’altronde Palermo è troppo lontana dal mondo intero per garantirmi un posto in prima fila lì dove i fatti avvengono e la gente brinda: Roma non si sente, Milano non si vede, Londra e Seattle mai pervenute. Per dire, a Palermo non c’è nemmeno Totò Schillaci, che in questa città è nato ma che da tempo è stabilmente su, al Nord, a giocare con le squadre per le quali tifano da sempre i palermitani: la Juve, l’Inter. Manca il Milan, ma solo perché le Notti Magiche sono durate un’estate appena e Schillo non è altro che una bella e sfortunata meteora che s’è bruciata troppo in fretta dopo aver brillato più di chiunque altro, incluso quel Maradona che di tutto l’universo calcistico è la supernova o giù di lì. Nessun botto, insomma, giunge dove vivo io nel 1991. La musica nel mondo intero è pronta a cambiare, io invece devo solo pensare alla scuola e a non farmi maltrattare dal compagno di banco, grosso il doppio e cattivo il quadruplo: ha gioco facile con me che sono un fifone magrolino che sa tutto dei dinosauri – giuro – ma zero della vita vera.

Quattro amici al bar

Nel mio caso la musica del 1991 si limita a due compact disc, molto diversi ma molto significativi. Uno è Matto come un gatto di Gino Paoli. Vado a comprarlo in un piccolo negozio che oggi non esiste più da almeno dieci anni. Entro nel locale che sono un bambino evidentemente fuori posto: c’è molto nero intorno e anche un odore strano, di plastica mista a petrolio, simile all’odore che mi scende dal naso al cuore quando entro in una cartoleria piena di giocattoli. Al bancone, il tizio mi guarda come se si aspettasse da me una compilation dance oppure i Metallica. Non so se la mia richiesta di Matto come un gatto – detto con quella vocina bianca, anzi trasparente, che mi avrebbe accompagnato ancora a lungo – l’abbia conquistato o disgustato: gli scappa un sorriso indecifrabile, io pago trentamila lire e corro subito fuori, dove ad attendermi c’è mio padre. A casa, mi commuovo quando sento a sorpresa la voce di Vasco che chiude a modo suo la filastrocca malinconica di Quattro amici.

L’innominabile

L’altro disco che segna il mio 1991 è Dangerous di Michael Jackson, l’innominabile. Di quell’album ricordo due cose. La prima è che quando vado a comprarlo, sempre nello stesso negozio di dischi, sono più a mio agio: se con Paoli il gestore mi aveva fatto sentire come un giovane anziano delle elementari, con Jackson sono sicuro di fare la mia figura di piccolo ribelle attaccabrighe. L’intoppo ovviamente non manca. Al tizio dico che cerco Dangerù: così, alla francese. Ritengo che mi avrebbe guardato con più indulgenza se gli avessi detto qualcosa di dadaista tipo coccodè: invece fa finta di non capire e sembra attendere che io mi metta a piangere. Non ricordo bene com’è finita: mi piace pensare che dopo un minuto di occhiatacce reciproche lui mi abbia fatto uno sconto di cinquemila lire con tante scuse e saluti a casa. L’altro ricordo che mi lega a questo album è che nella scaletta c’è Black or white, che è l’ultimo grande singolo di un artista vicinissimo alla caduta non solo per le note vicissitudini personali, ma anche perché Jackson rappresenta più di tutti quella grandeur pop rimasta ferma all’euforia a volte naïf degli anni Ottanta, alla simbologia americanissima di Reagan, al salvare il mondo con un ritornello vincente. Nulla di male: il problema è che quelli della generazione di Jackson non capiscono che la festa è finita e che è tempo di cambiare. E la lezione, durissima, arriva proprio nel 1991.

Eccoci qui, intratteneteci

Mentre Jackson fa strabiliare il mondo con un video pieno di effetti speciali, altrove si torna al livello base: musica in primo piano e al diavolo tutto il resto. Il clip di Black or white diventa quasi grottesco: voleva essere il futuro, diventa un residuo kitch del passato. Il 1991 invece è l’arco di tempo che ha rivoluzionato tutto: ha riportato sulla terra il pop, rendendolo meno spettacolare ma molto, molto più intenso. È vero, questa storia dell’anno che ha cambiato per sempre la musica si dice praticamente per ogni segmento del Novecento. Però – diamine – se si fa l’elenco delle uscite discografiche del 1991 si trovano gli standard alla base di tutto ciò che succederà nei decenni successivi. Certo, la prima obiezione è scontata: del grunge non è rimasto nulla, nel senso che è una scena senza veri eredi, chi ci ha provato non ha lasciato grandi tracce ed è stato distrutto dal nu metal. Però il fatto vero è che l’impatto culturale di quella scena è rimasto enorme e chiunque prima o poi passa da quei dischi. Il 1991 è evidentemente l’anno decisivo del rock: escono Ten dei Pearl Jam, Nevermind dei Nirvana, Badmotorfinger dei Soundgarden, Gish degli Smashing Pumpkins, l’album dei Temple Of The Dog. Se vogliamo allargare il campo, c’è il capolavoro Green mind dei Dinosaur Jr, c’è l’abisso noise dei Jesus Lizard di Goat, c’è il rumore storto dei Fugazi di Steady diet of nothing, ci sono i Sebadoh con III e ci sono i Pixies con Trompe le monde. E poi ancora i Metallica del Black album, i Guns’n’Roses di Use your illusion e i Red Hot Chili Peppers di Blood sugar sex magik, quello di Under the bridge. Chiaro allora di che cosa si parla quando si parla di 1991?

Sono io quello sotto ai riflettori

Se il rock preme, il pop risponde nel modo giusto dando finalmente visibilità planetaria alla band migliore del mondo, i R.E.M., culto underground diventato inaspettatamente superculto globale nel 1991 grazie a Out of time e a Losing my religion. In un’intervista del gennaio ’94 a Rolling Stone, Kurt Cobain parla dei R.E.M. in termini di devozione assoluta: “Se solo riuscissi a scrivere almeno un paio di belle canzoni come le loro! Non so come facciano. Cristo, sono i migliori. Affrontano il successo come santi e continuano a darci grande musica. Mi piacerebbe che lo stesso potesse succedere a noi, perché ci siamo fossilizzati. Siamo stati marchiati. Che cosa fanno i R.E.M.? College rock? No, non sono etichettabili”. Il gruppo di Michael Stipe arriva al vertice e se la gioca direttamente con il top, ovvero gli U2. Che nel 1991 tirano fuori Achtung baby, non un disco a caso. Sempre nel 1991 esce Innuendo dei Queen, definito da tutti il testamento musicale di Freddie Mercury. L’altra grande corrente in ascesa è quella del rap: non sono un fan del genere, ma nel 1991 escono il disco dei Cypress Hill e quello di 2Pac (2Pacalypse now) e non citarli sarebbe un errore. Mi ritrovo però di più con il trip hop dei Massive Attack di Blue lines e con l’elettronica d’ambiente degli Orb di The Orb’s adventures beyond the ultraworld.

Senza amore

E poi certo, il 1991 è l’anno in cui lo shoegaze prende definitivamente la forma che conosciamo, quella di un punk per introversi dal suono strambo e rarefatto, che ti attraversa il cuore e lo lascia sottosopra, come succede sempre quando riconosci la tua stessa vita – precisa, identica – nella timidezza altrui. Il 1991 è l’anno di Loveless dei My Bloody Valentine e di Just for a day degli Slowdive: se li ascoltiamo ancora oggi un motivo ci sarà. Ma il 1991 è anche l’anno dei Blur shoegaze – più o meno – di Leisure, di Blood dei This Mortal Coil, di Whirlpool dei Chapterhouse, di Yerself is steam dei Mercury Rev, di Screamadelica dei Primal Scream, di Recurring degli Spacemen 3, di Raise degli Swervedriver, di Laughing stock dei Talk Talk, di Bandwagonesque dei Teenage Fanclub. Il 1991 è anche e soprattutto l’anno di un altro capolavoro underground che solo molti anni dopo verrà degnamente celebrato: Spiderland degli Slint.

Mica male, insomma

L’elenco è impressionante perché la stragrande maggioranza di questi album ha realmente modificato il corso degli eventi: anche se all’inizio qualche lavoro è stato sottovalutato o ignorato, il 1991 ha imposto nuovi paradigmi con i quali ancora oggi bisogna fare i conti. Ecco perché il 1991 ha cambiato in meglio la musica che ascoltiamo. E ha cambiato in meglio anche noi, di riflesso. Peccato che all’epoca di tutto questo fermento a me non sia arrivato nulla: mi sono trovato a un passo dalla rivoluzione, solo che ero troppo piccolo per coglierne appieno la portata. Ho compreso il senso profondo del 1991 molto più tardi, quando il mondo ha cambiato faccia un’altra volta lasciandomi nuovamente fuori moda e fuori tempo massimo. Oh beh, comunque non importa.