Just Mustard, Dublino. Quel futuro distopico ormai presente infernale

Dublino, 21 agosto 2019. Qui a Dublino è la musica che conta davvero a fare sold out e anche stasera all’Academy c’è una folla di giovani punk più o meno introversi pronta a donare il massimo livello della propria energia ai Just Mustard. Per le band emergenti, in questa città dare e ricevere dagli ascoltatori non è un privilegio da ultimi romantici. La band di Dundalk, poi, è tutt’altro che romantica, perché racconta la quotidianità per quello che è, ossia uno “scivolamento rallentato nell’apatia che incatena a una routine senza sogni”.

Ognuno ha il proprio posto scomodo

Si sentono suoni di paesaggi industriali in cui vagano spiriti liquidi e volti senza espressione in una quotidianità vissuta nel buio dell’individualismo, parola di quattordici lettere che per me ha uno spessore pari a zero, ma che per alcuni è un manifesto, o meglio una sciocca propaganda di chi crede di avere il coltello dalla parte del manico e invece ha solo cenere. Di che città si tratti non lo so bene. Potrebbe essere Dublino, con le sue ciminiere fumanti all’orizzonte e il porto dai colori tristi. Potrebbe essere qualsiasi altra città, più o meno grande: ognuno ha il proprio posto scomodo.

Non si può andare da nessuna parte

Il blend electro-noise dei Just Mustard riporta alla perfezione la sensazione di isolamento e alienazione, tanto che potrebbe essere una sorta di colonna sonora di Metropolis di Fritz Lang – come dire, un futuro distopico diventato ormai presente infernale. Non si può andare da nessuna parte se non riesci a volare nemmeno nei tuoi sogni, come viene ripetuto chiaramente nella strofa di Frank, primo dei due singoli rilasciati quest’anno. La voce sospesa e fluttuante della cantante rimane parallela al ritmo rotto e ondulante degli strumenti. Il brano, eseguito senza sbavature e in modo equilibrato, pulsa di nervosismo intermittente. Lo stacco tra vocalità eteree e radicate tonalità industriali si gonfia maggiormente in October, l’ultima pubblicazione della band: c’è più ruggine, eppure più apertura, tra immagini celestiali e ombre inconsce, in un loop di pieni e vuoti, di tensioni e rotture. Le nostre teste si muovono in contemporanea, avanti e indietro, come piccoli ingranaggi di un unico grande macchinario. Brano dopo brano, l’atmosfera si fa sempre più drammatica e la performance cresce di intensità.

Una dose di inquietudine

Tainted, Curtains, Pigs e Tennis, tratti del debut album della band – Wednesday, 2018 – sono su un altro livello, quello del post-punk più duro, caotico e di spessore, graffiante come un muro di cemento non rifinito. In particolare è il ritmo incalzante e dark di Pigs a non lasciare via di fuga. È ancora un’esecuzione calda e analogica, autentica e frusciante, con riverberi corposi e pieni d’aria che ci calamitano come se fossimo polvere di grafite. Vorrei che questo brano non finisse mai: vengo inebriata in grado sempre maggiore e avvolta dall’oscurità come da un abbraccio umido mentre danzo un valzer meccanico e snaturato della sua eleganza.