M83, “Dead cities, red seas & lost ghosts”. L’adolescenza è la cosa più bella del mondo

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Anthony Gonzalez ha detto in un’intervista a Pitchfork: «Essere un adolescente era la cosa più bella del mondo». Se dovessi riassumere la mia adolescenza in un istante, sceglierei quella volta che andai a vedere Fargetta un sabato pomeriggio al Noctis, discoteca palermitana che qualche anno dopo avrebbe cambiato nome in Zsa Zsa Mon Amour per diventare un centro di gravità permanente indie rock. Avevo forse quattordici anni e un’ingenuità di fondo che mi portava a coltivare una diffidenza orgogliosa e fuori bersaglio: i poteri forti non mi fregavano mica, i malacarne a scuola invece sì. Vabbè. Avevo un maglioncino marrone che scivolava sulle spalle appuntite e dei pantaloni a sigaretta che delineavano perfettamente le mie gambette lunghe, due rette tracciate male che affondavano su scarponcini tarati più per l’Alaska che per la Sicilia: mi sentivo in cima a ogni mia aspettativa, in realtà ero solo una giraffa in blue jeans. Ma che importava: mi trovavo a poca distanza da uno dei miei idoli e cercavo di stare a galla in quel mare di corpi in movimento, annaspando con mosse in stile macarena che cucivo sulla grancassa dell’ultima hit dei Ti.Pi.Cal. Ripensandoci, credo che sia stato proprio quello il momento chiave: ero felice come se non potessi chiedere niente di più dalla vita, salvo poi accorgermi che accanto a me c’era una tizia più grande che mi guardava come se mi fossi pisciato addosso. Per me questa scena è la definizione esatta di adolescenza.

Freddo, non scuro

Oggi che vivere significa spesso andare più in alto dell’orgoglio, tenendo duro anche a rischio di offuscare la nostra stessa luce – espedienti, passi falsi e flessibilità sono la moneta corrente della mia generazione –, la musica dei francesi M83 rappresenta la via di fuga da questi anni sbilenchi, anzi capovolti. Nello shoegaze futuribile, vivido ed eccitante di Dead cities, red seas & lost ghosts (uscito il 14 aprile 2003), Anthony Gonzalez e il suo sodale di allora, Nicolas Fromageau, producono un suono diverso da quello dei dischi seguenti, specialmente Hurry up, we’re dreaming. Non ci sono canzoni da struggimenti cosmici, mancano i ritornelli a tutta forza: Dead cities – che è nella nostra lista dei migliori titoli degli anni Zero – è un fantastico esempio di post rock a 8 bit, un’elettronica artigianale e sgranata che tende progressivamente ad aumentare la pressione sonora. C’è sia la stasi (l’ambient cibernetico e sacrale di In church) che la bufera (la progressione cinematografica di On a white lake, near a green mountain che esonda nei riverberi totali di Noise), il synth-gaze d’assalto di America e quello malinconico di Run into flowers, c’è persino una sorta di Stranger things ante litteram in Be wild. «Volevamo qualcosa che fosse freddo in termini di sonorità e atmosfera. Non scuro, ma freddo. Una musica che avesse un’anima e al tempo stesso fosse senz’anima», racconterà Gonzalez. Io vorrei vivere per sempre come un disco degli M83. E allora vai Anthony, continua a raccontarci lo stupore della giovinezza, la bellezza di preoccuparsi solo del presente senza dover fare i conti con ciò che sarà domani.