Da quando sono entrato nell’età sbagliata ho smesso di ascoltare dischi del passato. Davvero: la mia timeline musicale ha avuto un ripristino totale il tredici giugno 2021 e premo play soltanto sul Release Radar del venerdì. Lascio che sia un algoritmo a costruirmi una nuova, brevissima memoria tutta concentrata sul qui e adesso. Scelgo di sterzare dal no future al no past, riscrivendo uno slogan più vecchio di me per ricollocarmi temporalmente a distanza di sicurezza dal me stesso più giovane – e chissà che non sia questo lo scarto decisivo tra adolescenza e maturità. Il passato non esiste se non lo rivivi e questo è stato il solo modo che ho trovato per venire a patti con l’equilibrio attuale – ciò che sono diventato vs. ciò che avrei voluto diventare – e non farmi annichilire dalla trappola esistenziale peggiore che c’è: la nostalgia. Cioè quel sentimento che ti fa venire voglia di tornare ai giorni perduti della gioventù, anche se in fondo non erano davvero così belli da vivere. Ma se gli anni bruciano, la musica resta intatta e alla fine, per quanti sforzi faccia, sono sicuro che tornerò lì dove tutto è cominciato, lì dove mi sento più a mio agio. D’altronde mi è sempre piaciuto vestirmi con certi suoni storti, lacerati e laceranti, ed è bello sapere di non essere l’unico ad aver scelto una musica consapevole. Ognuno di noi porta con sé i segni di ascolti inusuali e bellissimi, quelli che cambiano il corso degli eventi di una vita intera e raccontano perfettamente chi eri, chi sei, chi sarai. Per esempio, che cosa dice di te Loveless dei My Bloody Valentine?
Il rinoceronte col mal di pancia
C’è un passaggio cruciale in una recensione pubblicata nel 1991 dalla rivista britannica Select: «Nella traccia strumentale Touched, per esempio, l’accompagnamento sembra arrivare da una Radio 4 sintonizzata male. Spicca una chitarra che ulula come se si trattasse di un rinoceronte con il mal di pancia. Come diavolo è stato fatto? Continuerai a chiedertelo anche nel 2000». È una battuta che va al di là delle intenzioni e si trasforma nel corso del tempo in una profezia approssimata per difetto: ancora oggi, esattamente trent’anni dopo la pubblicazione dell’album, nessuno ha davvero compreso che cosa c’è dietro un disco che è diventato mito. Queste canzoni restano infatti un passo avanti a tutti: a chi si affanna a decifrarne i misteri affidandosi all’ennesimo – velleitario, ammirevole – tutorial chitarristico su YouTube (auguri), a chi nel ’91 l’aveva snobbato in favore di Nevermind, a chi all’epoca nemmeno c’era ma ha trovato ogni virgola del proprio presente nel modernariato noise pop di When you sleep. Nemmeno Kevin Shields, consapevole della responsabilità storica che questo disco porta con sé, sembra essere ancora venuto a capo del sortilegio – o forse della maledizione – che da tre decenni continua a perseguitarlo: si scrive Loveless, si legge La storia infinita. L’ossessione per la rimasterizzazione lascia intendere che il chitarrista dei My Bloody Valentine continui in un certo senso a percepire come sbagliato il baricentro sonico dell’album, come se il suono ultraterreno di queste canzoni debba ancora essere pienamente rivelato, nascosto chissà dove tra le mille sovraincisioni di un lavoro costato 140mila sterline (non poco, ma nemmeno quei 250mila che vengono invece raccontati da sempre).
L’insonnia è una buona alleata
Alan Sparhawk una volta ha rivelato un aneddoto interessante sulla musica della sua band, i Low. In sostanza, sostiene che l’insonnia sia una buona alleata. «Il tuo cervello vuole creare, così se tu dormi tanto la creatività si riversa nei sogni. Quando non dormi a sufficienza invece questi sogni cominciano a strisciare lentamente nel mondo reale». È una descrizione che si adatta perfettamente anche a Loveless, che è rumore dolce e sgranato, un sogno con elementi di realtà che scivola al ralenti tra piani diversi dell’esistenza, una psichedelia aliena fatta di chitarre sfalsate che sembrano dimenarsi per riuscire a emergere in mezzo a questa nebbia di ritmiche spigolose e melodie oniriche, nel vero senso della parola: la voce al caramello di Bilinda Butcher registrata prestissimo al mattino è quasi un invito ad ascoltare un monologo inconscio fatto di suggestioni sensuali e drammaticità lieve.
La triangolazione con Slowdive e Ride
Loveless è una roba talmente grande che finisce per condannare lo shoegaze a decenni di irrilevanza. La gran parte della critica musicale parla di questo genere come di una sorta di rivoluzione mancata, un bel guazzabuglio armonico di regole infrante che si trasforma in un disciplinare sonico inderogabile, contenuto nella triangolazione di Loveless con Souvlaki degli Slowdive e Nowhere dei Ride. Tutto il resto, di fatto, mediaticamente non conta quasi nulla. È un giudizio ingeneroso che ha come unico risultato quello di far inabissare nel giro di un paio di stagioni l’intero movimento, schiacciato dal peso di un’eredità senza eredi e da un crac commerciale che costringerà alcuni a un riposizionamento nel mercato discografico. Ci vorrà la tenace resistenza gaze messa su negli anni Dieci da una nuova scena, libera da vincoli e da ansie da prestazione, per ridare slancio a questa musica così diversa e senza paragoni. Ma è un’altra storia.