I 20 migliori album shoegaze e dream pop del 2020

Da sinistra, Nothing (foto: Ben Rayner), Ringo Deathstarr (foto da Bandcamp), Laveda (f: Andrew Segreti), Bdrmm (f: Sam Joyce)

È interessante notare come moltissima musica uscita in questo maledetto 2020 – o ripescata per l’occasione – abbia in un certo senso raccontato in diretta le conseguenze psicologiche e il terremoto umano e lavorativo che la pandemia ha portato con sé (oltre ai tanti, troppi morti, pensiamo per esempio al disastro dei concerti saltati e dei locali chiusi). C’è dunque chi ha trovato le note giuste per reagire al dolore e c’è chi invece ha alzato forte il volume solo per espellere il veleno dal cuore: sia quel che sia, è un bene che i musicisti di tutto il mondo abbiano tentato di disinnescare un periodo così tremendo attraverso le loro canzoni. Il risultato è che ci siamo spinti come mai prima d’ora fino al centro esatto del vissuto di queste band – come una questione privatissima che diventa, ora più che mai, una ferita generazionale. D’altronde da sempre lo shoegaze è una musica incentrata sul concetto di empatia e in alcuni momenti ascoltare la canzone giusta magari non cambia il corso degli eventi, ma aiuta a resistere al dispiacere. Non riesco infatti a trovare un vaccino migliore contro la follia di questi giorni fuori di testa, contro la paranoia imposta dagli attaccabrighe, contro l’irrazionalismo che fa rima con negazionismo. I migliori album shoegaze e dream pop del 2020 ci dicono quindi una cosa importante: è possibile soffrire senza per questo dover cedere alla disumanità.

Un’idea ce l’avrei

Penso per esempio a Madeline Johnston, in arte Midwife. Il suo disco, Forever, utilizza la grammatica ruvida di un dream pop virato slowcore – lei lo definisce heaven metal – a bassa fedeltà sonora e ad alto tasso emotivo, per raccontare un personalissimo calvario esistenziale che ha marchiato a fuoco il suo 2018: inutile sottolineare che quando lei canta con un tormento evidente «get the fuck away from me, 2018», chiunque si sente autorizzato a estendere il caloroso invito al 2020. Non poteva poi che uscire quest’anno The great dismal dei Nothing, in pratica il disco giusto con cui rispondere per le rime a questi dodici mesi drammatici. E ancora Star, Flamingo, Dehd, Laveda (il cui bellissimo What happens after è una specie di greatest hits sotto forma di album: ogni traccia è un potenziale singolo) e tutte le altre band che ci hanno dato forza e conforto da gennaio a oggi: leggi le loro storie e ascolta le loro canzoni, ne varrà la pena. Anche perché, parlando dell’aspetto più strettamente sonoro, c’è stato un tentativo di evoluzione: in questo elenco si trova tanto la classicità quanto la contaminazione, senza che ci sia una contraddizione da dover giustificare. Sono lavori molto diversi gli uni dagli altri, come se raccontassero storie differenti ma con una linea rossa che li unisce. Lo shoegaze non è una regola, ma uno stato d’animo. E allora ecco i 20 migliori album shoegaze e dream pop del 2020. Premi play e scopri che cosa raccontano di te.

20. Flamingo, Komorebi

Il disco è uscito il 28 febbraio, proprio quando venivano decise le prime chiusure in Lombardia. Ma come scrivevamo nell’intervista pubblicata in primavera, «questo virus ha colpito tutti e nessuno è colpevole delle conseguenze che sta vivendo». Di sicuro Komorebi di Flamingo avrebbe meritato maggior fortuna. Se non altro, chi ascolta adesso questo album ha una grande opportunità: riscoprire una perla di post rock umbratile, di indie rock potente, di songwriting non comune.

19. Kill Your Boyfriend, Killadelica

Echi psichedelici e oscuri, suoni industriali provenienti da chissà quale bassofondo urbano animato da crimini e malavita. Il terzo album del duo italiano (Matteo Scarpa e Antonio Angeli) è una bomba sul punto di esplodere, un processo in continua evoluzione che non ha paura di guardare il male dritto in faccia: nello specifico, le storie raccontate da Killadelica sono quelle di undici serial killer donne. Le sonorità punk si cristallizzano nello sperimentalismo noise, che regola e dà un ritmo preciso e coeso a tutto l’album. (Ilaria Sponda)

18. Animal Ghosts, Will

Sulla carta gli opposti si attraggono sempre, anche se nella vita vera finiscono inevitabilmente per perdersi, lasciando in giro troppe lacrime e cuori vuoti. Ecco, Animal Ghosts (lo statunitense Cliff Barnes) è un artista che sa come tenere uniti gli opposti in musica: Will è un album a colori sebbene immerso nell’oscurità insistita dei riverberi. Suoni caldi e avvolgenti dialogano con una narrazione vocale che ricorda una ninna nanna cantata da una madre invisibile: la malinconia, che spesso accarezza e culla i pensieri più profondi, suona più o meno così. (Ilaria Sponda)

17. Deserta, Black aura my sun

La sintesi esatta tra M83 di Hurry up, we’re dreaming e i Cure di Disintegration probabilmente si trova tra le tracce del sontuoso Black aura my sun, specialmente nel crescendo tutto epica e introversione – uno splendido ossimoro, in effetti – di Paradiso, una sorta di gran ballo dark che va a tempo con il nostro batticuore così imperfetto e dolente, eppure così forte e vitale. La resistenza a un mondo sempre più in malora passa anche da canzoni come quelle di Deserta.

16. Grazer, Grazer

Loro sono quelli che non si può fare a meno di ascoltare: un duo australiano (Matt e Mollie), un progetto artistico multidisciplinare, la prova che la creatività e la musica non si fermano neanche nei momenti più bui. L’EP di debutto è emerso durante il lockdown da un seminterrato di Carlton (Melbourne) ed è una brezza calda e dorata. È un lavoro sommesso, saturo di suoni pieni e rotondi, echi che si espandono verso un altrove personale, diverso per ognuno di noi. (Ilaria Sponda)

15. Dehd, Flower of devotion

Non farti ingannare dalla vocalità esageratamente sbarazzina della cantante Emily Kempf: Loner, il super singolo indie pop di Flower of devotion (composto ovviamente ben prima di tutto il casino che è successo) racconta di solitudini e isolamenti, in pratica i demoni invisibili che hanno assaggiato le nostre inquietudini nel corso degli ultimi dodici mesi. Eppure quella conclusione – I’m fine, I’m fine, I’m fine – è più che un auspicio: è il nostro mantra catartico da sbattere in faccia a questi giorni scuri.

14. Soft Blue Shimmer, Heaven inches away

In Chihiro i Soft Blue Shimmer tirano fuori una piccola gemma indie rock da cantare sottovoce e da sentire sotto pelle, in Cherry-cola abyss sembra di sentire i Lali Puna in versione dream pop, mentre gli stop &go di Musugi portano la band al centro di un incendio elettrico squisitamente anni Novanta che continua a bruciare i nostri cuori anche adesso. Soprattutto adesso.

13. Cindy Doe, Cold+

Non si trovano molte informazioni a proposito di Cindy Doe, se non che si tratta di un side project collegato alla band shoegaze/noise pop Janedriver. Di fatto importa poco: Cold+ ci dice che Cindy Doe fa una musica preziosa e fragilissima, una sorta di versione a bassa fedeltà di Grouper e Angelo Badalamenti, uniti in un rumorismo lieve, tetro ed emotivamente fortissimo. Una gemma nascosta che quando la scopri non te ne separi più.

12. Ringo Deathstarr, Ringo Deathstarr

Sperimentale, labirintico, dirompente eppure familiare come un déjà vu: il nuovo album dei Ringo Deathstarr pare essere composto da frammenti persi di brani dei Cocteau Twins e degli Slowdive (vedi In your arms). È un viaggio tortuoso tra gli alti e i bassi di voci eteree e impalpabili e strumenti terreni e compressi. Dopo cinque anni di attesa, il ritorno del trio di Elliott Frazier ci ha fatto capire quanto ci mancava: eccolo finalmente in tutta la sua essenza. (Ilaria Sponda)

11. Dottie, Collection

Il genere lo-fi viene spesso sottovalutato, ma quando è Dottie a farlo emergere dalle tenebre acquisisce tutto un altro sapore, come un frutto succoso che non si assaporava da tempo. Collection è il frutto in questione, dunque è d’obbligo prendersi del tempo per gustarlo molto lentamente e notarne le varie sfumature, da quelle più dark e ostiche a quelle più morbide e sognanti. (Ilaria Sponda)

10. Nothing, The great dismal

Del nichilismo dei Nothing si è detto spesso che non è una posa furbastra da vendere al mercato della disperazione rock. Al contrario, è l’antidoto necessario al cinismo di questi anni sbagliati che costringe le nostre esistenze a un gioco al ribasso in cui alla fine perde chiunque. Domenic Palermo non si è fatto mancare nulla in termini di rabbia e tristezza ma, quando canta con la sua band, in un certo senso è come se ti tendesse la mano per dirti che in mezzo a questa battaglia senza fine è meglio non restare da soli.

9. Etti/etta, It’s Hallowe’en

L’album precedente, Old friends, è stato il più bello del 2018. Adesso gli Etti/etta tornano con un disco che conferma tutto: il loro dream pop ibrido continua a indicare la strada allo shoegaze del ventunesimo secolo. Synth, chitarra, drum machine e basso si fondono in un suono che sa essere contemporaneamente modernissimo e ortodosso, come se tutto dovesse essere ancora scritto, come se niente fosse stato ancora ascoltato. E d’altronde la musica di questo duo italo-canadese è qualcosa che non si trova facilmente in giro.

8. MJ Guider, Sour cherry bell

Il racconto industriale e gotico di Melissa Guion è un fluido etereo che ammalia e ipnotizza. Questo esperimento tra techno e dream pop non poteva essere tenuto fuori dai migliori album di quest’anno, essendo un capolavoro per varietà di influenze e coesione di scrittura. La musica giusta è quella che ha un qualcosa di attraente che non si sa spiegare, eppure quel qualcosa è sempre lì, pronto ad attivarsi senza presunzione. (Ilaria Sponda)

7. Star, Violence against Star

«Tutto è sembrato andare sempre contro di noi. Inoltre nel mondo succedono cose brutte, quindi ti ritrovi a combattere contro forze orribili lì fuori», ha raccontato di recente Shannon Roberts, cantante degli Star. Il marito, il polistrumentista Theodore Beck, anche lui nella band, è morto quest’anno di cancro. Violence against Star, con la sua gioiosa irruenza noise pop alla Raveonettes, è il miglior tributo possibile a un musicista di talento.

6. Bdrmm, Bedroom

Uno di quegli album da ascoltare per allontanarsi dalla realtà ed entrare in un mondo di narrazioni fantascientifiche e utopie architettoniche. I Bdrmm si sono lasciati andare a un esperimento molto interessante di dream pop, shoegaze e indie rock, incasellando tutto in un processo musicale affascinante in cui ripetizioni e variazioni si alternano continuamente, sempre legate le une alle altre. (Ilaria Sponda)

5. Postcards, The good soldier

The good soldier è il disco più paradisiaco ed esotico di quest’anno, quasi sacrale e rituale, come in attesa di una catarsi raggiungibile con lentezza e acuta disperazione. Dall’oscurità si delinea uno spazio sicuro, un’idea vaga e al contempo precisa di casa, lontana nel tempo, come il ricordo di un sogno di cui non si ha più certezza. C’è un mistico classicismo shoegaze riconoscibile che rassicura, cui i libanesi Postcards aggiungono una giusta dose di visionarietà. (Ilaria Sponda)

4. Tom And His Computer, Future ruins

La musica che si fa materia prendendo tridimensionalità col variare delle sue stesse vibrazioni. Si instaura un gioco di forze tra analogico e digitale, dando l’impressione di un indie rock elettronico caldo e viscerale. L’album di debutto del danese Thomas Bertelsen, co-prodotto da Trentemøller per la sua etichetta In my room, garantisce ruvidezza, serietà e solitudine, il tutto in chiave malinconica e strutturalmente nordica. I flussi dark vengono stemperati dalle voci di Roxy Jules in brani come Lovers and gasoline e Future ruins: c’è il sussurro psichedelico e i confini sonori si sovrappongono. (Ilaria Sponda)

3. Hum, Inlet

Il ritorno discografico degli Hum è stato quello che ci voleva per provare a reagire all’horror vacui di un 2020 troppo atroce per essere vero. Di fronte a un’annata assurda in cui il destino ha deciso di maledire l’umanità, Shoegaze Blog decide di contrattaccare con Inlet: randellate metal, crepuscolarismo shoegaze, pressing sonico ossessivo. Alziamo dunque il volume al massimo, in attesa che l’apocalisse la smetta di giocare sporco sulla nostra pelle.

2. Midwife, Forever

«How do I say this? In every language? I will never forget you», canta Madeline Johnston in Language. Il cuore del disco è tutto qui: nell’impossibilità di esprimere un dolore così pieno che ti riempie i polmoni, così pesante che ti schiaccia il cuore, così brutale che ti toglie le parole. Forever è una struggente e drammatica dedica a Colin Ward, un amico di Madeline morto nel 2018. Ed è soprattutto una raccolta di canzoni bellissime.

1. Laveda, What happens after

Gli statunitensi Laveda parlano dei sentimenti di una generazione che è sempre sul chi va là, chiedendosi che cosa sarà del domani (e quest’anno più che mai). Parole come «all the kids are fucked up, all the kids don’t care about love again» diventando un tutt’uno con saturazioni e rigonfiamenti sonori, rapide abrasioni e sospensioni improvvise. C’è spazio insomma per tutte le emozioni che possono prodursi e intrecciarsi nel continuo mutamento di What happens after. È l’album più sorprendente dell’anno per l’ambizione mostrata dai giovani Ali Genevich e Jacob Brooks, per l’impatto immobilizzante che provoca e che si scioglie nel tempo in un coinvolgimento a cerchi multicolore e concentrici, che ti spinge sempre più verso l’ignoto. (Ilaria Sponda)