Intervista: Flamingo. Le ragazze stanno bene

Non poteva certo saperlo Lavinia Siardi, alias Flamingo, che l’uscita del suo nuovo album Komorebi sarebbe coincisa con l’inizio di quella fase che ormai siamo abituati a chiamare lockdown. La cantautrice sta trascorrendo questo periodo in Friuli, condividendo in modo inedito lo spazio di casa con la sua famiglia – gatta compresa – dopo aver passato anni vagabondi tra Milano, la Norvegia e il Giappone. Dovremo aspettare un po’, quindi, per festeggiare dal vivo questi dieci brani che alternano riverberi, atmosfere rarefatte e chitarre distorte. 

Sto recuperando con i miei genitori tutto il tempo che non avevamo trascorso insieme

«Doveva essere il disco della liberazione, che possa svolgere questa funzione anche dentro casa»: così scrivevi su Facebook il 28 febbraio scorso, giorno del debutto di Komorebi. Quali sono i tuoi pensieri dopo più di un mese di quarantena?

«Il desiderio di uscire e soprattutto di suonare questo cd è fortissimo. Ma so molto bene che al momento non è nient’altro che un’utopia. Però devo dire che sono fortunata: sto recuperando un tempo che non avrei mai avuto nell’arco di una vita con i miei genitori. E sto facendo qualche piccola esibizione in diretta streaming: da voi in primis e poi per un paio di altre realtà. Devo dire che ero un po’ reticente nel farle: di base mi vergogno, sono timida, ma è stato un modo per tenersi compagnia molto bello». 

Hai partecipato anche a una diretta a Pasquetta per Keep On Live, che aveva come obiettivo raccogliere fondi contro la violenza sulle donne. Mi sembra che il tema della condizione femminile in questa società sia molto importante nell’album. 

«Sì, è vero. Mi fa molto piacere che tu me lo chieda. Devo essere sincera: pensavo fosse un elemento abbastanza intelligibile, ma è la prima volta che vengo interpellata sulla questione. Komorebi è un disco che parla delle problematiche, delle sfide, ma anche dei successi e delle cose belle che appartengono al fatto di essere donna e, più in generale, di essere parte di una categoria che incontra spesso discriminazioni e mancanza di rispetto». 

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Tra i brani ce n’è proprio uno sul ciclo mestruale, un argomento spesso sottostimato o ridicolizzato. Qui ti fai accompagnare ai violini da Lucia Gasti, che definisci una delle donne più forti ed emancipate che tu conosca. Insomma, un empowerment al femminile che al giorno d’oggi è necessario.  

«Sei la prima persona che ha usato il nome proprio del soggetto di quella canzone, quindi ti ringrazio! Lucia è la prima musicista con cui sono cresciuta: lei è di Udine come me, anzi di Cerneglons per essere precisi, ed era l’unica ragazza sotto i 25/30 anni che frequentava con me i circoli Arci all’epoca del liceo. Oltre a essere una violista straordinaria, è anche una delle femministe più convinte e con più testa e sentimento che io conosca. La canzone è dedicata a lei: non vedevamo l’ora di urlare insieme I’m sinking in my blood (sto affondando nel mio sangue) durante il release party del disco, ma conto che ci rifaremo presto».

A tal proposito, che cosa c’era in programma per questo album che non è stato possibile fare?

«Il 29 febbraio avremmo dovuto fare il party di lancio, ma cadeva proprio nel primo fine settimana in cui i locali di Milano hanno chiuso. In stand by ci sono dei concerti, come le due date milanesi riprogrammate a inizio autunno, anche se so benissimo che non è scontato che si potranno fare». 

Prendiamolo come un segnale di speranza. 

«Esatto, dai! In realtà il più grosso sconvolgimento è stato senza dubbio quello di non aver potuto partecipare al SXSW negli Stati Uniti. Quando mi è arrivata la notizia che ci sarei andata mi sembrava un sogno, talmente bello da sembrare impossibile. Ed effettivamente poi… Diciamo che essendo stato annullato l’unica consolazione è che non siamo stati gli unici a dover rinunciare al festival». 

Il Giappone è stato un tempo sospeso nel quale mi sentivo incapace di agire

Questo virus ha colpito tutti e nessuno è colpevole delle conseguenze che sta vivendo. Però di una cosa sei “colpevole”: essere stata in Giappone per tre anni! Che invidia. L’album è una sorta di diario dei cambiamenti e della crescita che hai avuto durante quella permanenza?

«Sì, anche se alcuni dei pezzi che ci sono nel disco, penso soprattutto a Tokyo, Mother e Wish you the best, sono stati ideati prima di partire. Tokyo è addirittura un pezzo estemporaneo che ho scritto mentre vivevo in Norvegia qualche anno prima: mi era uscita una suggestione per questa metropoli in cui ci sono io che la sorvolo appesa a una fune, senza direzione. E in effetti questo è stato per me il Giappone: un tempo sospeso nel quale mi sentivo incapace di agire». 

Come mai? 

«Sono andata a Tokyo perché volevo uscire dalla mia comfort zone e posso dire che ne sono uscita al 100%. Ho visto la mia vita stravolta da una barriera linguistica incredibile, ma anche da una barriera emotiva altrettanto forte. Ho lavorato molto nelle risorse umane – più per necessità che per scelta – e ho visto le stesse discriminazioni nei confronti delle donne che conosciamo anche in Italia, solo che perlomeno noi le condanniamo, mentre lì sono completamente accettate. Questo mi ha scatenato una serie di considerazioni, ma anche di malesseri: ero una testimone quasi impotente».

E quindi hai scritto Komorebi

«Una volta tornata ho avuto bisogno di scrivere musica per processare questo tanto che avevo vissuto e per fortuna ho avuto al mio fianco due persone come Iulian (Dmitrenco, bassista dei Nobody Cried For Dinosaurs) e Giacomo Carlone: Giacomo è tuttora all’attivo con i Flamingo e produttore del disco. Entrambi hanno una sensibilità che li porta a farsi molte domande e a scontrarsi con molti ostacoli. Quindi la mia esperienza dell’ostacolo giapponese, dell’incomunicabilità, è diventata anche la loro». 

Mother è stato il primo singolo pubblicato: una canzone che parla delle aspettative che le altre persone hanno su di te. Hai scelto questo brano perché credi che sia un argomento che tocca ognuno di noi o perché consideri il pezzo tra i più potenti dell’album a livello sonoro?

«Mother è una canzone che colpisce in modo trasversale, penso perché parla anche del rapporto tra genitori e figli, che è sempre una tematica estremamente delicata e che tutti in qualche misura affrontiamo ogni giorno. Ci tengo a specificare che al video di Mother hanno partecipato anche i miei genitori: il testo del brano può sembrare una richiesta di adozione disperata, ma con i miei ho un bellissimo rapporto (ride)! A parte questo, Mother è stata scelta come primo singolo anche perché ci sembrava una buona transizione tra quello che era il mio vecchio ep (Flamingo, uscito nel 2016), molto acustico e molto arpeggiato, e quello che è il mio nuovo disco, che invece ha tratti quasi violenti, distorti. Una combo di sonorità che fa da ponte tra il vecchio e il nuovo». 

Qual è l’essenza dei Flamingo quindi?

«Una cosa che ci dicono in tanti è: Quanto ho pianto al vostro concerto! Mi rendo conto che ci sono delle tinte scure, ma il lato catartico della musica è fondamentale per me, Giacomo, Iulian e il nuovo Giacomo che è andato a sostituire Iulian al basso. Per un motivo o per l’altro, eravamo tutti in momenti difficili della nostra vita e la sala prove prima e lo studio poi sono state un’oasi di salvezza non indifferente». 

Cosa rappresenta Komorebi?

«Komorebi è un disco di forte ricerca sonora e di autoconsapevolezza. Quando avevo 15 anni sembrava inverosimile essere una ragazza con la chitarra: sono cresciuta con l’idea di non essere in grado di toccare pedalini o amplificatori. Per fortuna ho avuto modo di emanciparmi da questa idea. Ogni volta che con gli altri musicisti pensavamo di esserci dati un limite di rumore, violenza, acidità del suono ci ritrovavamo a scavalcarlo. Bellissimo». 

Alle medie tutti ascoltavano Povia e i Black Eyed Peas, io i Sum 41 e i Tre Allegri Ragazzi Morti

Con che ascolti sei cresciuta?

«Sono sempre stata una grande mangiatrice di musica, ma la svolta principale l’ho avuta sicuramente alle medie con una cassetta vagante in classe. Era una raccolta di punk passata al mio compagno di classe di prima C dal fratello in terza C: c’erano i Sum 41, i Sex Pistols, i Tre Allegri Ragazzi Morti e i Blink 182. È stata la musica della ribellione in un momento in cui tutti ascoltavano Povia e i Black Eyed PeasPoi a 15 anni ho iniziato a fare radio per un’emittente regionale: avevo un programma settimanale di un’ora da riempire, così mi sono tuffata nel rock classico per farmi le radici. Poi grazie a una persona che ci tengo a salutare, Luigi Mutarelli, che mi ha preso sotto la sua ala, ho scoperto l’indie italiano ed estero, quando indie si intendeva veramente musica indipendente, dai Fugazi ai Sonic Youth». 

Nel tuo disco c’è un brano dedicato a Nick Cave (The wind Cave): è un riferimento importante per te?

«Ho scoperto Nick Cave che ero piccolissima perché un collega di mia madre mi passò la discografia e io me la mangiai a 12 anni, sollevando le preoccupazioni della mia professoressa di musica (ride)… Quindi lo ascolto da quasi 20 anni, ma l’ho visto dal vivo solo due volte, al Primavera Sound e a Lucca. Sono stati dei live illuminanti: all’improvviso sul palco è comparso non un performer, ma un Dio, un dragone! Il pezzo è un ringraziamento a quello che è stato per me un modello enorme nel trattare temi di vita e di morte – perché purtroppo sappiamo che la vita di Nick Cave ne è costellata – e parla proprio del fatto che avere un grande maestro, ovviamente inconsapevole (ride), possa essere una bella scossa elettrica». 

Allo shoegaze come ci sei arrivata?

«Buona domanda! Sicuramente grazie a Gigi, di cui ti parlavo poco fa. Credo sia partito facendomi ascoltare gruppi contemporanei per poi andare indietro fino ai My Bloody Valentine. Un disco come quello dei The Pains Of Being Pure At Heart penso rappresenti uno dei miei primi salti nel dream pop. Ammetto però che è un genere che suono più di quanto non ascolto: amo molto i riverberi ed è una passione che condivido con Federico Cavaglià, il chitarrista dei Nobody Cried For Dinosaurs: è stato lui a regalarmi per il compleanno il mio primo shimmer». 

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Prima o poi la domanda doveva arrivare: perché il titolo Komorebi?

«È una di quelle parole giapponesi intraducibili: in realtà non l’ho portata io, ma Iulian, e vuole dire luce che filtra attraverso le foglie degli alberi. Siamo pessimi nella scelta dei titoli, lo ammetto: a volte sono semplicemente le prime parole delle canzoni, tipo nel caso di Rose. Questo termine, komorebi, ha subito risuonato nelle nostre orecchie come qualcosa che rappresentava lo stato delle cose di quel momento. Il disco aveva un po’ quella luce». 

Nel cd compare anche Xabier Iriondo degli Afterhours. Com’è stato lavorare con lui? 

«Sì, ha suonato la chitarra elettrica in Wish you the best e il cordofono in Tokyo. In quest’ultimo pezzo si sentono anche molti rumori di sottofondo, tutti dovuti a Xabier che li creava con qualsiasi cosa: i dinosauri giocattolo di sua figlia, delle biglie, qualche cacciavite. Vederlo all’opera è stato molto bello».

Come ultima cosa, ti chiedo un desiderio per il futuro. 

«La mia speranza, credo condivisa da tutti in questo momento, è quella di poter tornare ad assaggiare la vicinanza con le persone, in primis quelle che ci sono più care. Io stessa adesso sono lontana da una persona che mi sta molto a cuore. Sarebbe bello tornare a essere vicini in tutti i sensi, perché il web è uno strumento bellissimo, ma non c’è nulla come una birretta ai tavolini fuori, soprattutto d’estate, nella nostra bella Italia».