Hum, “Inlet”. Il ritorno più bello

In questo 2020 così assurdo, sballato e drammatico, il ritorno a sorpresa degli Hum rappresenta un inatteso regalo e anche una beffa paradossale, perché un tour in tempi brevi – e anche nel lungo periodo – è ovviamente impossibile. Ma tant’è: erano ventidue anni che la band statunitense non pubblicava un disco nuovo, dunque potremo aspettare ancora qualcosa in più – non troppo – per ascoltare dal vivo le mastodontiche, ultrasature e densissime canzoni di Inlet. È probabilmente il disco più anni Novanta in cui ti potrai imbattere: sotto un’architettura sonora decisamente spessa e assolutamente pesante – The summoning per certi versi è a tanto così del crepuscolarismo metal degli ultimi Alice In Chains dell’era Staley, quelli del cane a tre zampe – gli Hum scrivono il manuale di come si fa un rumorosissimo rock introverso ad alimentazione 100% shoegaze, vedi per esempio Shapeshifter, che distribuisce in egual misura schiaffoni e malinconie negli oltre otto minuti di pressing sonico. A tal proposito, il minutaggio è mediamente molto elevato: non è certo un disco per ascoltatori distratti o impazienti. Gli Hum trovano insomma la quadra con un lavoro che è un buco nero temporale capace di azzerare vent’anni di silenzio con un suono spaccacuore che è un ritorno a casa. Che è un ritorno sin troppo atteso.