Il 2 maggio del 1989 esce Disintegration e la casa discografica sotto sotto pensa che questo lavoro potrebbe segnare la disintegrazione commerciale dei Cure. Non è stato così, adesso lo sappiamo bene, anche se 30 anni dopo l’album continua a essere un meraviglioso controsenso: come può un lp così ostico – se non addirittura ostile – diventare prima culto, poi fenomeno, infine vessillo? Per certi versi, il disco più popolare dei Cure è un disco che non ha nulla di popolare. Tracce lunghissime, esistenzialismo dark, voci che svelano la tristezza di chi si sente ai margini di tutto: ecco come le canzoni di Disintegration sono diventate decisive per chiunque abbia con sé il minimo indispensabile, cioè un cuore che batte.
Una mancanza di realtà
In un’intervista rilasciata nel 1989 a NME, Smith fornisce una spiegazione: “Mi piace la musica che ha una mancanza di realtà nei suoi contenuti. Il repertorio dei Cure non riflette il mondo materiale in un modo ovvio e penso che questo rappresenti la forza di ciò che facciamo. Provo sempre un po’ di imbarazzo quando ascolto canzoni che hanno un taglio socio-politico perché è un aspetto che viene diluito per renderlo accettabile e quindi diventa assolutamente inutile. Suppongo che ne valga la pena se pensi che una percentuale dei tuoi ascoltatori sia composta da deficienti che hanno bisogno di sentirsi raccontare robe elementari. Non incontro mai gente che possa essere illuminata da me su alcune questioni importanti. Non sono in contatto con gran parte del mondo reale. Conosco persone che fanno i medici o lavorano in banca e ascoltano i Dire Straits: penso che si sentano dispiaciuti per me”. La chiave è qui: lo scollamento tra la musica dei Cure e il piano della realtà. O di una certa idea di realtà, in cui qualsiasi cosa è netta, precisa e definita – anzi, definitiva.
Non per disperati formali
Attenzione, però: le canzoni di Robert Smith sono maledettamente vere e vissute. Altro che storie: Disintegration è un disco capace di cambiarti la vita, perché descrive con impressionante precisione l’addio alla giovinezza e la resa dei conti con l’età adulta. In pratica, Smith parla di sé per dire tutto di noi. Non è un parco giochi per disperati formali, quelli per i quali la malinconia è un veleno di cui si possiede già l’antidoto: al contrario, questi brani danno appigli concreti in chi si ritrova senza difese in un contesto disumanizzato – eccolo, il vero piano della realtà – e scopre di non essere solo nella tempesta. È un sentimento che sarà valido in ogni tempo, in ogni latitudine, ovunque ci sia una persona sensibile che non si arrende al cinismo. Le tracce di Disintegration dunque sono scudi perfetti e ben calibrati su suoni che non hanno contorni e non hanno una destinazione: circolano attorno a un’idea, aggiungono giro dopo giro nuove sfumature, nuovi dettagli e nuovi spunti, potrebbero durare due minuti come due ore. Robert Smith in fondo non si fermerebbe mai: d’altronde come si può interrompere un’emozione. “È emotivamente stancante fare un disco. Finisco sempre per piangere in studio, il che è un problema, perché poi se ti lasci andare così sembra che tu stia cantando male”, dice – nell’89 – al magazine Q (e nella stessa intervista definisce Morrissey “un prezioso, miserabile bastardo”). Una rivelazione interessante la fa nel 2018 al Guardian: “Ero ottimista quando ero giovane, anche se scrivevo canzoni deprimenti. Ora però sono quasi l’opposto di ciò che ero. Ho una visione parecchio triste della vita“. E allora dicci di più, Robert. Nemmeno noi siamo messi meglio, trent’anni dopo.