Una pur poderosa classifica dei venti migliori album del decennio non può certo esaurire il discorso. Così Shoegaze Blog ha chiesto ad alcuni amici di raccontare qual è il loro disco shoegaze/dream pop preferito degli anni Dieci. Perché tra il 2010 e il 2019 si è assistito a una progressiva riemersione dello shoegaze che vale la pena di descrivere attraverso prospettive differenti. Leggi dunque quello che hanno da suggerirti gli addetti ai lavori che abbiamo interpellato. E naturalmente non scordarti di premere play.
Mattia Nesto (Rockit)
The War on Drugs, A deeper understanding (2017). “Album totale, rotondo come una scultura del Canova e profonda come l’orizzonte americano. A deeper understanding è adatto a qualsiasi clima, ma non appena si fa ottobre, le giornate si accorciano e la voglia di mettersi i maglioni avanza, ecco che tutta la potenza di questo lavoro viene fuori. Se lo shoegaze è musica che ci abbraccia con le spire dei suoni, questo disco è il più caldo abbraccio che potrete ricevere da qui ai prossimi dieci anni. O almeno il migliore che ho ricevuto negli ultimi dieci, questo sì”.
Dario Torre (Stella Diana)
Slowdive, Slowdive (2017). “Dire un solo album come simbolo di un decennio è dura, durissima e finirei per far torto a tanti ottimi lavori usciti in questi anni, ma se devo allora devo. Nessuno ci credeva che sarebbe successo, invece è successo e ci siamo ritrovati una bellissima perla che non solo ci ha fatto tornare indietro nel tempo, ma ha gettato un fascio di luce su tutto il movimento attuale corroborandolo e giustificandolo ampiamente. Quelle chitarre spaziali, come solo loro sanno, le atmosfere sospese, infinite. Non è pedissequa imitazione di ciò che furono, è classe. Pura e semplice classe. Dal vivo sono sempre loro: perfetti, fragili, sinfonici. Il migliore album del decennio è Slowdive. Gli altri si mettano in fila e paghino giusto pegno”.
Esmeralda Vascellari (Lady Sometimes Records)
Weird., Desert love for lonely graves (2013). “Scopro incredula che su RYM questo è il primo disco italiano a comparire nella classifica shoegaze degli anni Dieci. Lo-fi, grezzo, sì un po’ acerbo e derivativo, ma così diretto e personale, ripensando che è stato registrato in cantina da un ragazzo di neanche 19 anni col solo sostegno morale di un batterista di 16. Questo lo rende unico. Quanto vorrei un esercito di teenager italiani tanto pazzi per riverberi e fuzz da avere l’urgenza di mostrarsi come sono: giovani, tormentati e imperfetti. Come solo i cuori più puri sanno essere”.
Marco Barzetti (True Sleeper)
DIIV, Deceiver (2019). “«Ma non è prettamente shoegaze». Ok, io non amo i dischi che ripetono all’infinito cliché di genere, perciò ben venga. Z. C. Smith nel giro di due anni si disintossica, ascolta evidentemente molto i True Widow (sentire Taker per credere), consolida la band e matura la sua scrittura. Lo dimostra l’opening Horsehead che in soli cinque minuti cambia di atmosfere con totale disinvoltura. I DIIV scrivono il loro disco migliore: tecnicamente impeccabile, etereo ma senza rinunciare a un forte impatto ritmico”.
Serena Console (Repubblica)
Slowdive, Slowdive (2017). “In lontananza parte la chitarra di Christian Savill e, in crescendo, si aggiungono Rachel Goswell con la tastiera, Simon Scott che ripropone un dolce 4/4 alla batteria e Nick Chaplin al basso. Neil Halstead entra in punta di piedi e con la sua voce calda implora: “Give me your love, give me your heart”. Impossibile non rispondere a questo inno presente nell’intro del capolavoro omonimo che gli Slowdive hanno pubblicato nel 2017. D’altronde, noi amanti di Rachel&co non potevamo ricevere un regalo migliore dopo una lunga attesa: familiarità, innovazione e vaste atmosfere in cui perdersi“.
Federica Scandolo (Pigiama Magazine)
DIIV, Deceiver (2019). “Terzo album degli americani DIIV, è un vagabondaggio nel buio, mitologico e destabilizzante. Ci si chiede in che oscuro anfratto si sia rintanato il fantasma scanzonato di Is The Is Are (2016). Ora il canto emerge più teso e composto. Labirintico è l’effetto di riff arrabbiati e feedback alla Sonic Youth che si mescolano alla malinconia shoegaze. Folate grunge ondeggiano il vascello, mentre visioni distorte sbucano dalle rapide dell’Acheronte, nel viaggio verso l’inesorabile vuoto“.
Riccardo Cavrioli (Rockerilla, Indie For Bunnies)
Chapel Club, Palace (2011). “Un decennio. Di album ne sono passati tanti e sicuramente ne ho ascoltati parecchi. L’esordio dei Chapel Club (band finita nel dimenticatoio troppo presto, anche a causa di un inopinato secondo album) mi è rimasto nel cuore. Malinconia e introspezione dalle tinte teatrali e oscure, con nebbie shoegaze e visionarie che impregnano l’aria, in un contesto evocativo (amplificato dalla voce baritonale di Lewis Bowman) che mantiene però anche una fredda carica di eleganza new wave. Magia“.