Prima che la pandemia cambiasse drammaticamente le prospettive e introducesse il suo galateo di precauzioni, ero solito applicare il distanziamento sociale nei confronti di chi diceva con convinzione «A me piace tutta la musica», una frase che poi si è trasformata in qualcosa di più raffinato e degno di riflessione: «I generi musicali oggi non hanno più senso». Ritengo che una considerazione di questo tipo sia l’equivalente di quel «Non siamo né di destra e né di sinistra» che è solo un via libera alle peggiori scelte politiche senza pagare dazio alla propria coscienza. Dato che per me destra e sinistra hanno una loro diversità, allo stesso modo dal mio modesto punto di vista ha senso eccome parlare di generi musicali. Va da sé che gestendo un blog come questo è chiaro quale possa essere il mio pensiero, anche se per me lo shoegaze non è una regola, ma uno stato d’animo. Quindi non parteggio per la scissione dell’atomo, per la burocrazia dei suoni, per il sovranismo degli arrangiamenti: ma per una chiarezza di fondo sì, caspita.
Il graffiti pop
Secondo chi ritiene che ormai la musica vada oltre gli steccati abituali, un disco come Obe di Mace dimostra che i generi sono un’eredità morta. Obe è uno degli album più interessanti di questo periodo e in effetti è vero che si tratta di un lavoro che non ha contorni ben delineati. Però il producer milanese si muove in una zona di riferimento piuttosto precisa benché ampia: persino gli ospiti meno allineati – per esempio Colapesce – giocano comunque lo sport del padrone di casa (e lo fanno bene). Spotify ha dato un nome alla musica di Mace: Graffiti Pop. Quindi un genere esiste pure nel suo caso e non c’è nulla di male in ciò, serve a dare un’indicazione di massima, ma anche a sgombrare il campo dagli equivoci. Il rischio infatti è creare confusioni pericolose che sdoganano tutto perché tutto vale alla stessa maniera.
Artisti sinceri, cantanti furbetti
Oggi viviamo in un’epoca in cui si è passati dai generi musicali alle classificazioni arbitrarie: i due termini dominanti degli ultimi anni – indie e trap – sono diventati le scuse per promuovere qualsiasi cosa, musica bella e canzoni dimenticabili, artisti sinceri e cantanti furbetti. Anche su Spotify le playlist tematiche per genere sono il nuovo campo di battaglia delle popstar contemporanee. Ma spesso l’indie o la trap attuali non hanno niente a che vedere con ciò che queste parole suggeriscono (o suggerivano): non sapere di che cosa si sta davvero parlando – e che cosa si sta realmente ascoltando – può portare a una paradossale omologazione che abbassa le aspettative, semplifica gli arrangiamenti – voglio quel suono – e mette in crisi le proposte di qualità. Se restiamo nell’ambito dei grandi numeri, non sento tanta contaminazione, quanto piuttosto rassegnazione: ci sono più regole da seguire in un brano pop che in una canzone shoegaze.
Non un suono, ma un’attitudine
L’indie propriamente detto non ha mai avuto un disciplinare: non c’è un suono unico, semmai un’attitudine unica. Come quella dei Big Thief: non hanno inventato nulla, eppure non ce ne sono di band come la loro. Restando nell’ambito d’azione del blog, si va dal minimalismo dei Beach House alla sperimentazione di MJ Guider fino alla freschezza dei Laveda. È shoegaze, ma variamente interpretato: non potrei trovare artisti più diversi. Il genere conta se conta l’approccio di chi lo interpreta. Cambiamo però prospettiva: nel tentativo legittimo di intercettare i nuovi ascoltatori che bazzicano i video brevi di TikTok, le storie di Instagram e i meme su Facebook, il pop – nel suo senso più ampio – rischia di diventare una roba da social media manager. Un futuro di canzoni scomponibili e sempre più brevi, adatte a fare da corredo a una gag, a una ripetizione di addominali o a un ascolto distratto mentre si scorre il display col dito (il lockdown prolungato dei concerti potrebbe accelerare questa tendenza). Ecco, nel frattempo che noi parliamo di generi musicali, forse il vero tema di discussione è un altro.