Intervista: Kill Your Boyfriend. Per il ciclo “Alta Tensione”

Il suono dei Kill Your Boyfriend è un noise liquido al sapore di veleno: bevilo tutto senza pensarci troppo – e se ti stringe il fiato e ti martella il cuore è tutto ok. Ma è anche una psichedelia assordante e tarantolata che scivola nel riverbero, nel rumore, nell’incubo. Uno stile che aggiorna al ventunesimo secolo la lezione di Death In Venice ed EvaBraun e che starebbe bene in qualche vecchio film da terza serata Mediaset, quelli in cui si inizia a morire male già al terzo minuto. D’altronde gli argomenti preferiti del duo trevigiano (Matteo Scarpa alla voce e alla chitarra, Antonio Angeli alla batteria) sono probabilmente il post punk e gli omicidi seriali. Insomma, Killadelica è un disco che fa paura (sul serio), un album bello e contundente pubblicato dalle etichette Sister9, Little Cloud e Shyrec. Ecco allora il mondo dei Kill Your Boyfriend: un’indagine del commissario Shoegaze Blog.

Comincerei con una domanda che quest’anno è diventata la sola che conta davvero: come state?

Matteo: «Attualmente bene, toccando ferro. Speriamo che arrivi presto un vaccino».

Antonio: «Diciamo che nella prima fase di lockdown non conoscevamo nessuno che avesse contratto il Covid, adesso invece qualcuno c’è, quindi sentiamo un po’ più paura».

Come vivete questa seconda ondata?

Matteo: «Rispetto alla prima, questa seconda ondata è più pesante a livello mentale e forse anche a livello fisico. In estate siamo riusciti a fare un solo live e non abbiamo avuto la possibilità di ricaricare le batterie. Noi musicisti siamo la categoria che è stata immediatamente cancellata a causa della pandemia».

L’isolamento aiuta l’ispirazione o, al contrario, la inaridisce?

Matteo: «Stiamo cercando di lavorare direttamente a casa su nuovi progetti, avendo anche molto tempo libero per via dell’attuale situazione. Durante il primo lockdown mi sentivo ispirato, ora un po’ meno».

Killadelica doveva uscire prima dell’estate, poi abbiamo posticipato a novembre… ed è arrivata la seconda ondata

Che cosa si prova a fare uscire un disco senza poterlo suonare dal vivo? Avete valutato la possibilità di posticipare la pubblicazione?

Matteo: «Sinceramente l’uscita era prevista prima dell’estate. Poi la situazione è andata come è andata, così abbiamo optato per novembre, confidando sul fatto che l’emergenza sarebbe stata gestibile e ci avrebbe permesso di suonare in giro, sia pure con tutte le precauzioni del caso. Ma la seconda ondata è stata molto più forte rispetto a quanto si ipotizzava e così eccoci qua. Possiamo solo aspettare, d’altronde ci sono tante persone che stanno morendo ed è ovvio che ora la priorità è fermare questo disastro. Il resto viene dopo».

Che live dei Kill Your Boyfriend ci stiamo perdendo per colpa del coronavirus?

Matteo: «Il concerto non sarebbe cambiato rispetto ai live precedenti: due chitarre dal vivo, una batteria minimale, un sequencer e la voce. Il nostro è un live molto fisico, perciò è stato strano vedere le persone sedute e distanziate durante il concerto all’Arcella Bella di Padova, a ferragosto: noi amiamo il contatto con la gente quando suoniamo».

Antonio: «Si sente un po’ questa distanza tra band e pubblico, ma piuttosto che non suonare completamente…».

La copertina di “Killadelica”

Il suono del nuovo album mi sembra più potente rispetto ai precedenti – e i precedenti non erano certo all’acqua di rose.

Matteo: «Noi lavoriamo molto a casa, avendo la possibilità di sfruttare un piccolo studio. Questo fatto finisce per influenzare il suono che vogliamo».

Antonio: «È il nostro approccio a non essere classico, da sala prove: non siamo mai stati una band da chitarra, basso e batteria che si mette a improvvisare. Diciamo che optiano per un approccio più incisivo e diretto, senza stare lì a girare intorno all’obiettivo».

Il Veneto ha una lunga tradizione di post punk e suoni “di frontiera”. Che cosa resta di quell’eredità nella musica italiana odierna?

Matteo: «In Veneto c’è una scena molto florida e la musica dark nel trevigiano ha sempre avuto un ottimo riscontro. Per quanto riguarda l’Italia contemporanea, siccome l’indie è diventato pop, l’underground si è un po’ perso».

Leggendo il comunicato stampa di Killadelica, viene sottolineata la vostra «sinistra ossessione» per l’omicidio. Vi chiederei di approfondire l’argomento, anche se non sono sicuro che sia una buona idea.

Matteo: «Tutto parte ovviamente dal nostro nome, che è evocativo in tal senso. Negli album precedenti i titoli erano nomi di ragazzi da uccidere, mentre adesso in Killadelica abbiamo cambiato prospettiva, entrando nell’ottica di chi uccide, non di chi è vittima. In questo caso si tratta di donne assassine, figure prese in prestito da libri, fumetti e mitologia. Anula, per esempio, è la prima vedova nera in assoluto, una sorta di serial killer risalente al 42 avanti Cristo, una regina dello Sri Lanka che ha ammazzato i suoi mariti affinché gli amanti diventassero uno dopo l’altro re e, infine, restasse solo lei a comandare».

Non si tratta di un elogio della follia: è solo un modo per descrivere l’orrore

Come si racconta il male senza cadere nel cliché?

Matteo: «Abbiamo cercato di descrivere le ragioni che hanno portato a questi omicidi, però non volevamo dare un’accezione positiva all’atto di uccidere. Di fatto, proviamo a raccontare attraverso la nostra musica uno stato d’animo tumultuoso che poi sfocia nella pazzia, ma non si tratta di un elogio o di un’esaltazione: è solo un modo per descrivere l’orrore».

Quale di queste donne fa più paura?

Matteo: «Forse Belle Gunness, una donna che ha ucciso diversi mariti e amanti per soldi. Secondo alcune leggende lei era un uomo. Una storia interessante».

Antonio: «Hanno tutte le loro particolarità. Elizabeth, per esempio, era la contessa di Dracula: faceva il bagno nel sangue per mantenere la pelle giovane. Sono insomma vicende particolari, interessanti da approfondire».

E a voi invece che cosa fa paura?

Matteo: «La monotonia. Porta un po’ alla morte dell’essere, un limbo in cui non vorrei mai cadere».

Ero convinto che avresti risposto «un brano pop».

(ridono) Antonio: «Magari un pezzo trap, quello sì che fa paura».