La storia di M B V è partita così, con un annuncio sul profilo Facebook ufficiale dei My Bloody Valentine. Un post sbucato letteralmente come il classico fulmine a ciel sereno: un’espressione che è un luogo comune per chiunque, non per Kevin Shields.
Insomma, il 2 febbraio 2013 il gruppo shoegaze interrompe un silenzio discografico lungo ventidue anni annunciando che di lì a pochissimo – solo poche ore! – uscirà il successore di Loveless. Qualche settimana prima i My Bloody Valentine avevano dichiarato che il nuovo album era stato masterizzato. Ma nessuno, ovviamente, pensa sul serio a un’uscita imminente. E invece è tutto vero: M B V esce in digitale attraverso il sito della band. E internet fa bum. Un decennio dopo, queste nove canzoni restano l’ultimo atto del quartetto, nonostante le numerose notizie che nel corso degli ultimi cinque anni si sono susseguite (e che abbiamo tentato di riassumere inutilmente).
Tutto qui?
Chi segue Shoegaze Blog sa che questo disco è di casa, tanto che è finito nella nostra top 20 dei migliori album shoegaze e dream pop degli anni Dieci. È un lavoro che però, nella stragrande maggioranza dei casi (soprattutto su Facebook), viene liquidato con una frase devastante nella sua semplicità: «Tutto qui?». Ecco, no, non è tutto qui. Partirei dal presupposto che, esattamente dieci anni fa, faceva da perno alla recensione di Gaspare Caliri su SentireAscoltare: «mbv ci fa capire col senno di poi che da chi ha portato una così grande innovazione nella musica popolare non si può pretendere di generarne un’altra». Non ha senso chiedere a Shields di spingersi più in là. Il rumore scomponibile di Loveless è ancora il postulato del rock contemporaneo: si rischia di ripetere l’ovvio sostenendo che quel suono sovrumano ha cambiato la storia e che da più di trent’anni i My Bloody Valentine hanno imitatori, non eredi. Se non sono le altre band a ribaltare lo status quo, perché dovrebbe farlo chi, ancora oggi, è insuperato?
I Valentines del 1997
Il “tutto qui” di M B V, insomma, è qualcosa che continua a essere perfettamente in linea con l’approccio iconoclasta e destrutturato della passata discografia. L’introduzione di She found now è il welcome back imprescindibile dopo ventidue anni: la chitarra sfalsata e onirica – di quei sogni in cui ci si muove al contrario e si cade leggeri all’insù – ricuce la cesura temporale infinita con il 1991 e ricomincia dal punto esatto in cui ci si era salutati. Who sees you è una specie di autocitazione: il riff si contorce mille volte a causa di un utilizzo intensivo della leva del vibrato, mentre l’overdrive viene potenziato da una catena di effetti la cui sequenza è più complessa da indovinare della successione di Fibonacci. If I am ha uno strano feeling jazzato, una sorta di scenario Blue Note però reinventato per un’audience insolitamente shoegaze. Wonder 2 pare una versione al quadrato di Little wonder di Bowie, con la voce di Shields che è un sussurro disperso in un tornado. Qualcuno all’epoca disse che è il disco che ci permette di ascoltare i My Bloody Valentine del 1997, non quelli del 2013: voleva essere probabilmente una critica, ma a me sembra una constatazione neutra. Anche perché è piuttosto accurata: la composizione di New you cominciò nel 1994, la notte successiva al suicidio di Kurt Cobain, secondo quanto riportato in un lungo articolo di Uncut del ’18. Mentre Only tomorrow risale al ’96. È possibile, dunque, che se mai – mai? – uscirà un nuovo album della band, sarà la fotografia esatta del 2013. E ciò nonostante, i Valentines saranno ancora molti decenni avanti rispetto al resto del mondo. Inseguiti da tutti, raggiunti da nessuno.