Fare shoegaze è una questione di controllo e di libertà, di anarchia e di rigore, di precisione e di sregolatezza. È un suono capace di rubare il fuoco all’inferno e di chiamare a raccolta tutte le stelle del cielo. Capito perché non possiamo fare a meno di questa musica? Mario Lo Faro è il chitarrista dei Clustersun, uno dei gruppi più significativi dello shoegaze italiano, altrimenti noto come italogaze. In fatto di suoni, è una garanzia: il disco più recente della band, Surfacing to breathe, è una botta shoegaze potente e irresistibile, anche grazie al lavoro impressionante di Mario alla chitarra. Shoegaze Blog non poteva che rivolgersi a lui per approfondire il discorso tecnico – ma non solo – che sta alla base del nostro genere musicale preferito. Detta in altri termini: hai una chitarra e vuoi suonare shoegaze? Leggi i consigli di Mario Lo Faro e soprattutto ammira la sua pedaliera.
Partiamo dalle basi. A quali pedali non può assolutamente rinunciare un chitarrista shoegaze?
“Secondo me le potenzialità espressive tipiche dello shoegaze, inteso in tutte le differenti incarnazioni attraverso cui abbiamo imparato ad ascoltarlo e amarlo, possono racchiudersi in quattro pedali veramente irrinunciabili: overdrive, fuzz (preferibilmente muff), delay e riverbero. Un overdrive con una generosa escursione di gain costituisce un vero e proprio jolly, per poter passare da lievi increspature clean boost a ritmiche crunch belle tese. Personalmente prediligo gli od trasparenti, che restituiscono il suono della chitarra con saturazione amp-like e progressiva, senza enfasi su particolari frequenze (i drive in stile Tube Screamer, con il loro voicing nasale e orientato sulle medie, non mi hanno mai preso). Per tirare su un muro di suono imponente, poi, il muff rimane l’arma definitiva: potente, gonfio, grosso, ma capace di acidità e spigoli quando serve. Sul riverbero qualunque considerazione sfocia nell’ovvio: per me è l’effetto “always on”, il creatore di ambiente, il distintivo di riconoscimento dello shoegazer. Ho aggiunto agli irrinunciabili il delay, perché nel comparto “ambientale” è il principale responsabile della tridimensionalità del suono; dalla sua interazione con il riverbero, per aggiunta e sottrazione, scaturiscono potenzialità espressive enormi. Penso che con questi pedali sia già possibile approcciare, in maniera credibile, più o meno tutto il campionario di suoni shoegaze, da quelli eterei e vaporosi in stile Cocteau Twins o Slowdive, fino alle atmosfere più sature di My Bloody Valentine o Swervedriver. Tutto il resto (wah, filtri, modulazioni, processori di dinamica eccetera) è fondamentale per aggiungere colore e carattere ma, in ultima analisi, si può comunque considerare prescindibile rispetto a questi quattro effetti”.

Meglio un fuzz o un distorsore tradizionale?
“Meglio tutti e due, manco a dirlo! In realtà, il mio istinto tenderà sempre a preferire l’assalto sonoro del fuzz, il cui comportamento è più estremo, temperamentale e divertente rispetto a quello di un distorsore canonico. È anche vero, però, che se fossi costretto (letteralmente sotto minaccia di morte) a poter inserire in pedaliera un solo effetto di gain, probabilmente opterei per qualcosa di assimilabile al ProCo RAT, che proprio in ambito shoegaze ha dimostrato le sue caratteristiche di grandissima versatilità: da un convincente e caldo overdrive, fino ad una potente distorsione da stack Marshall tirato per il collo, il suo ampio spettro di utilizzo ne ha fatto, non a caso, un must all’interno delle pedaliere di moltissimi dei nostri eroi fissatori di scarpe”.
La ricerca del “tone” definitivo è un percorso eterno
Hai una pedaliera davvero imponente. Quali sono le chicche di cui sei particolarmente orgoglioso?
“Sull’imponenza della pedaliera ci sarebbe da sentire direttamente un ortopedico cui, di questo passo, dovrò a breve affidare la schiena! Fortunatamente il disagio, in termini di peso e trasporto, di questo bestione è ampiamente ripagato dal suono e dal costante stimolo creativo che offre. L’assetto attuale, in termini di scelta dei pedali, routing del segnale e cablaggio, è un approdo cui sono giunto dopo infiniti tentativi, esperimenti, prove, sostituzioni, e che oggi mi soddisfa davvero a pieno. Sottolineatura d’obbligo su “oggi”, perché, come ogni chitarrista con l’addiction dell’effettistica sa bene (ancor di più se shoegazer), la ricerca del “tone” definitivo è un percorso eterno, che non ha mai un vero arrivo. Sicuramente il cuore di tutto il sistema risiede nella pattuglia di pedali Cornish: OC-1 (compressore ottico di qualità studio con controllo di blend), SS-3 (dal clean boost all’overdrive fuzzante, con ritenzione dei bassi stupefacente), G-2 (distorsore al germanio su base muff, che però suona come un RAT dopato), P-2 (per me, il muff migliore nella storia dell’umanità, tridimensionale ad un livello ineguagliabile e con un taglio di frequenze semplicemente perfetto… e ne ho provati davvero tanti!), NG-3 (velcro fuzz con controllo di bias) e CC-1 (light od/clean boost/eq attivo) rappresentano lo stato dell’arte per qualità costruttiva, durabilità e ovviamente suono. Per chi non lo conoscesse Pete Cornish è il guru britannico dell’effettistica da sempre associato a David Gilmour dei Pink Floyd, Paul McCartney fino al nostro adorato Kevin Shields. Sempre di Cornish sono i pedali che aprono e chiudono l’intera catena di segnale: rispettivamente il buffer/mute con uscita tuner LD-3 e il booster NB-3, entrambi alimentati a 24 volt, per garantire massima headroom e segnale a prova di qualunque interferenza, loop di massa o rumore indesiderato. Una chicca niente male è poi lo Shin-ei WF-24 8-TR Fuzz Wah, che incorpora, appunto, un wah ed il mitico Super Fuzz FY6: per capirci, il suono dei The Jesus And Mary Chain in Psychocandy“.
Le modulazioni?
“Le modulazioni sono rimesse alla magnificenza analogica del Moog Moogerfooger MF-108 M Cluster Flux, quintessenziale chorus/flanger/pitch vibrato (con possibilità infinite grazie al controllo della forma di onda dell’LFO), e all’Earthquaker Devices Grand Orbiter, goduriosissimo phaser OTA a 4 stadi, dal suono denso e psichedelico. Un effetto devastante è poi il Moog Moogerfooger MF-105 M MIDI MURF, combinatore multiplo di filtri di risonanza con LFO e circuito di drive, che utilizzo per raggiungere sonorità iper-abrasive alla A Place To Bury Strangers“.
Passiamo alla sezione ambiente.
“La sezione ambiente si apre con il delay Strymon El Capistan, a ispirazione tape echo, e prosegue con il Big Sky, sempre della Strymon. Questa è un’unità dalla potenza enorme, praticamente un riverbero da studio a portata di piede, con 12 algoritmi editabili in maniera dettagliatissima e la possibilità di salvare centinaia di preset in banchi da 3: una vera macchina da shoegaze. Infine, l’ultimo arrivato è l’Electro Harmonix Super Pulsar, tremolo caldissimo, e fondamentale per l’utilizzo live, grazie alla possibilità di programmare e salvare ben 9 preset diversi: psichedelia allo stato puro. Aggiungo solo che i pedali sono fondamentali nel raggiungimento dell’obiettivo sonoro che abbiamo in mente, ma non va sottovalutata l’importanza, cruciale, dell’ampli con cui gli effetti vanno a interagire. Io parto dall’idea che la piattaforma di lavoro ideale, in area shoegaze e non solo, sia un ampli pulito e con tanta headroom. Nei Clustersun, fin dal giorno zero, sia io che Marco abbiamo posto a fondamento dei nostri rispettivi suoni di chitarra e basso il fat clean tutto britannico degli Hiwatt, mangiapedali per eccellenza. Puoi immaginare la gioia incontenibile quando, quest’anno, siamo diventati endorser Hiwatt e abbiamo visto la nostra foto nell’elenco artisti del sito ufficiale, assieme a quelle di questi mostri sacri: sembravamo ragazzine tredicenni al cospetto di Justin Bieber!”.
Questi brani sono stati concepiti per essere suonati dal vivo
Rispetto al primo disco dei Clustersun, nel nuovo album ci sono chitarre decisamente più piene e aggressive. Come mai questa svolta? Quanto hai lavorato ai suoni?
“Il tempo trascorso tra il primo album Out of your ego e il nuovo Surfacing to breathe ci è servito per maturare un approccio ancora più organico e focalizzato sulla densità del suono. Tre anni fa i brani erano nati con un piglio maggiormente etereo, sospeso e glaciale, circondati quasi da un’aura di impalpabilità. Ciò si è trasfuso in un equilibrio formale sin troppo “educato”: il risultato è che le chitarre sono rimaste tenute a bada, spesso relegate indietro nel mix e poco dinamiche. Con il senno del poi, abbiamo commesso anche qualche peccato di inesperienza, assumendo decisioni in maniera troppo frettolosa e con orecchie non riposate. L’album è stato comunque recepito in maniera ottima, ma per noi questa debolezza era evidente, anche in rapporto a come i brani venivano fuori nella dimensione live. Per il secondo album, quindi, il primo obiettivo era quello di imprimere una sterzata netta su questo versante. Le otto tracce in cui si articola Surfacing to breathe, infatti, sono effettivamente caratterizzate da grande potenza e da un suono densissimo e muscolare, diretta conseguenza di una fase creativa che si è abbeverata del sudore e dei fragori del palco. I nuovi brani sono stati composti ed elaborati in un momento di intensa attività live della band, a cavallo del tour americano del 2015: nel loro DNA c’è la dimensione della performance dal vivo impressa a fuoco. Tre anni fa avevamo concepito brani “da registrare”, mentre quelli di oggi sono decisamente “da suonare”. Forte. Fortissimo. Per quanto mi riguarda, ho goduto di tempo e libertà totale in fase di registrazione, con la possibilità di effettuare un lavoro più dettagliato di sperimentazione sul suono e sulla stratificazione delle tracce. Il salto di qualità è poi avvenuto grazie alla immensa sensibilità in fase di mix di Alessio Pindinelli (chitarrista e cantante de La Casa Al Mare, che ha anche coprodotto con noi il disco) e Fabio Galeone del Wax Recording Studio di Roma”.
Il muro di chitarra di Lonely moon è eccezionale. Che pedali hai usato per ottenere questa resa sonora?
“Grazie davvero! È un brano al quale tenevamo tutti particolarmente, perché le sue coordinate di suono, idealmente, prendevano spunto dagli Slowdive di When the sun hits o Catch the breeze, ma con l’intento di giungere a qualcosa di chitarristicamente ancora più denso e potente, conservando però morbidezza: parafrasando i Pink Floyd, cercavo il mio Delicate sound of thunder. Una brutta gatta da pelare, insomma! Come per tutte le altre tracce dell’album, ho impostato il lavoro non solo sul singolo suono, ma sulla stratificazione di più parti che, insieme, funzionassero come una “super-chitarra”. Ho quindi registrato una prima traccia con la linea accordale, in funzione di architrave ritmica distorta: compressore OC-1, distorsione light del G-2 scolpito con l’eq attiva e boost del CC-1, un caldo riverbero hall con settaggio medio dal Big Sky e pickup al manico della Jazzmaster, a evidenziare le basse frequenze e l’articolazione degli accordi. Successivamente ho aggiunto una seconda traccia quasi in funzione di pad, dal sapore tipicamente Slowdive, giocata su frequenze più medio-alte, con l’utilizzo del pickup al ponte, gli accordi presi a centro manico ed enfasi sulle corde non avvolte; in questo caso erano attivi, oltre al compressore, l’overdrive SS-3 ulteriormente equalizzato e boostato dal CC-1, il Cluster Flux settato come chorus, il delay El Capistan e il Big Sky con un algoritmo molto dreamy e modulato (una patch che ho ribattezzato, guarda un po’, Soft Focus). Già queste due tracce, andando a coprire frequenze diverse e complementari, creavano un muro di suono davvero appagante sin dal primo ascolto. Serviva però una terza parte, a fungere da collante tra le prime due: una linea lead melodica, con il sustain lungo e spalmato, suonata sotto il 12esimo tasto, a coprire il registro ancora più alto. Il suono è lo stesso della seconda traccia, ma con il G-2 al posto dell’SS-3, per avere maggiore gain. Acquisite queste tracce (doppia microfonazione, un classico SM57 più un Lewitt a condensatore), la magia dell’equlibrio di mix e frequenza è tutta merito di Alessio Pindinelli e Fabio Galeone”.
Per avere un buon suono shoegaze, nella catena degli effetti il riverbero va prima o dopo il delay?
“Seguo ormai una regola fondamentale: non avere regole. Più si sperimenta, più ci si rende conto che alla fine vale davvero tutto, basta solo aver ben chiaro in testa il suono da raggiungere e, conoscendo bene la strumentazione che si ha a disposizione, usarla e farla interagire con le altre componenti del proprio rig in maniera funzionale. Prima di inserire in pedaliera il Big Sky (che include un algoritmo con l’effetto riverbero+delay), per esempio, utilizzavo due riverberi, il fratello minore Strymon Blue Sky e l’Electro Harmonix Cathedral; in mezzo avevo piazzato il delay El Capistan, così da avere tutte le combinazioni a disposizione. Avendo spazio in pedaliera è una soluzione che consiglio vivamente, perché ci sono suoni che vengono “portati” meglio con il delay che investe il riverbero, ed altri che funzionano più efficacemente con la sequenza inversa”.
Il primo errore? Settare tutto al massimo e suonare
Quali sono gli errori più comuni che fa un chitarrista shoegaze alle prime armi?
“Il primo che mi viene in mente è un errore non solo tipico dello shoegazer, ma del chitarrista in generale: ovvero, perdere poco tempo nella conoscenza degli effetti, settare tutto al massimo e suonare. Sui pedali di gain la cosa è particolarmente evidente: spesso sentiamo su disco un suono potentissimo e immaginiamo di replicarlo dando fondo alla quantità di distorsione. Invece il segreto di quei suoni, il più delle volte, è una quantità di gain moderata, che lascia trasparire dinamica e articolazione; massimizzando tutto, invece, si ottiene solo più compressione e minore intellegibilità, quando non addirittura sciami di vespe impazzite. Vale lo stesso per le modulazioni o gli effetti di ambiente: le regolazioni estreme vanno bene se si cerca proprio una drammatizzazione, ma i migliori risultati, in genere, si ottengono dosando i settaggi con cura, soprattutto quando la catena prevede un segnale molto processato. Il rischio, in questi casi, è di sparire dal mix con un suono melmoso e indistinguibile. Un principio simile vale per le regolazioni sull’amplificatore. In giro si vedono solo potenziometri treble, middle, bass e presence a fine corsa o quasi; invece, basta assistere a cinque minuti di mixaggio in studio per rendersi conto che l’equalizzazione sottrattiva è spesso lo strumento più efficace non solo per scolpire meglio il proprio suono, ma soprattutto per “farlo sedere” meglio nel mix complessivo della band. Invece di aggiungere frequenze, togliamo quelle inutili, fastidiose o che sconfinano nel range di altri strumenti. Tutto andrà, magicamente, più a fuoco”.

Per fare shoegaze meglio i pick up humbucker o single coil?
“Io sono innamorato del modo in cui si comportano i single coil soprattutto con fuzz e distorsioni: il loro output più basso, rispetto alla doppia bobina, consente di sentire maggiormente l’articolazione delle note e il suono della corda, con un effetto finale potente, ma allo stesso tempo sferragliante e slabbrato. Ancora, la naturale propensione al feedback, all’incontrollabilità e persino al rumore, è un ulteriore punto a favore. Per tutto ciò che concerne sonorità dreampop, jangle e similari, poi, la brillantezza e l’agilità dei single coil difficilmente sono battibili. Diversamente, gli humbucker offrono più compattezza, una mediosità rotonda e un tipico attacco gonfio, che però viene naturale associare agli stilemi del rock più convenzionale. Molto dipende, comunque, dal gusto personale e anche da ciò che il chitarrista vuole sentire sotto le dita. In fondo lo shoegaze, che per definizione si fonda su un suono pesantemente processato, consente di piegare efficacemente allo scopo qualunque tipo di chitarra: ho sentito suoni micidiali prodotti con Les Paul o ES-335, quindi mi appello nuovamente alla regola del “non ci sono regole”. La testa del chitarrista e il suo gusto rimangono comunque la discriminante decisiva, secondo me”.
Premi play: tre brani shoegaze con un bel suono di chitarra secondo Mario Lo Faro
“Ringo Deathstarr, Chloe. Un magma di chitarre densissime e stratificate, utilizzo liberale della leva del tremolo e un solo rovinatissimo ed epico: My Bloody Valentine alla texana, salsa barbecue inclusa”.
“La Casa Al Mare, CD Girl. Italian pride. Una gemma shoegaze sul versante più dreamy, di commovente e abbagliante bellezza, con un lavoro chitarristico in cui raffinatezza e gusto sono declinate al massimo livello. Alessio Pindinelli is God”.
“A Place To Bury Strangers, Ego Death. Come ridefinire il concetto di suono estremo nello shoegaze, masticando e sputando The Jesus And Mary Chain, non prima di averli sminuzzati a colpi di filtri taglienti come una katana di Hattori Hanzo. File under: assalto sonoro”.