Ho ascoltato in sequenza i tre dischi dei catanesi Clustersun, ovvero Out of your ego, Surfacing to breathe e Avalanche, appena uscito per la statunitense Little Cloud Records e per la francese Icy Cold Records. È stato un esperimento interessante perché ha fatto emergere in maniera palese il processo di maturazione della band: se il primo lavoro mi aveva incuriosito ma non affascinato e il secondo mi aveva folgorato, Avalanche mi ha semplicemente steso. È un album che schianta gli strumenti contro un muro di suono compatto e durissimo di psych, noise e shoegaze. Definire i nuovi Clustersun assordanti è poco. Shoegaze Blog intervista Mario Lo Faro, chitarrista del gruppo.
Il disco lo chiudiamo nel novembre del 2019
È vero che l’album doveva uscire più di un anno fa?
«Il disco lo chiudiamo in termini di mastering nel novembre 2019. Subito lo facciamo ascoltare in giro per cercare qualche etichetta che possa essere interessata: l’obiettivo è uscire con una bella edizione in vinile. Mentre a marzo la situazione precipita, noi chiudiamo l’accordo con Little Cloud e in Europa troviamo Icy Cold. Insomma, tutto è più o meno pronto già nella primavera 2020».
Chissà che brutto non poterlo pubblicare per tutto questo tempo.
«Una tortura. Le etichette però ci hanno detto che questo è stato un periodo interessante per la vendita degli album: non andando ai concerti, la gente si è fiondata sui vinili e ne ha acquistati di più».
Avalanche, ovvero valanga, è un bel titolo, effettivamente rende bene l’idea: non siete mai stati così estremi.
«Spesso le band vanno in direzione opposta alla nostra: partono sparatissimi al primo album e poi si tranquillizzano».
Cambiando un aforisma che non amo molto, nel vostro caso siete nati pompieri per poi diventare incendiari.
«Siamo sempre stati oscuri, ma all’inizio era qualcosa di atmosferico. Poi questa oscurità si è andata consolidando e già nel secondo album si sente. Con Avalanche c’è uno scarto in termini di messa a fuoco, sia di songwriting che di suono. Il fatto di essere in tre, rispetto alla formazione precedente con tastiere, ha dato più ordine, ha eliminato le componenti che smussavano gli angoli: adesso abbiamo solo spigoli».

Il brano più orecchiabile del disco è forse Juggernaut. Che è quanto dire.
«Ero certo che avresti citato questo brano e non Sinking in to you. Credo che Juggernaut sia il pezzo che fa da ponte tra il prima e l’adesso dei Clustersun, d’altronde veniva suonato in una primissima versione già nel 2016»
È un singolo perfetto, ma voi malvagi non l’avete scelto.
«Ti faccio uno spoiler: il nostro progetto è fare uscire tutte le tracce come singoli».
Come mai?
«Perché abbiamo un tale livello di fiducia in questi brani che vogliamo che tutti vengano messi in risalto».
È un bel modo per dire che ritenete le vostre canzoni perfette.
«Questi sono brani che ci rappresentano in maniera assoluta, non sposteremmo una virgola, è la prima volta che ci succede».
Abbiamo pensato: questo concerto può concludersi con una rissa o un’orgia. O entrambe le cose
Nel 2015 avete fatto un tour di una decina di date negli Stati Uniti. Qual è stato l’episodio più surreale che vi è capitato?
«Intanto ricordo con piacere il live al Bowery Electric di New York, una serata incredibile. Ma la data più surreale è stata a Lowell, nel Massachusetts. Arriviamo alle sei del pomeriggio con il furgone dell’A-Team, però bianco, e troviamo una situazione da Sodoma e Gomorra: alle 18 tutti sono in uno stato di devastazione inenarrabile. È il giorno delle matricole o qualcosa del genere: il paradiso, insomma. La serata avrebbe potuto concludersi con una rissa o un’orgia. O entrambe le cose. E in effetti, alla fine il pubblico è salito sul palco con noi. Bestiale. Un altro concerto divertente è avvenuto a Poughkeepsie, NY. Una line up bizzarra: cantautore acustico, band metal e noi. Il tutto in una pizzeria».
È più difficile fare un tour negli Usa o in Italia?
«In Italia. Nel 2015 chiudevamo le date per questo tour nella East Coast e faticavamo fatica a suonare in provincia di Catania».
Come mai?
«Quando arrivavamo in certi locali italiani ci guardavano come se fossimo l’anticristo per via dei nostri amplificatori. Capisco anche che ci sono circostanze particolari, i vicini magari che si lamentano, il rischio che arrivino i carabinieri. Una band d’impatto come la nostra ha tante difficoltà in partenza. Ma la differenza più grande è rappresentata dal pubblico. Negli Stati Uniti si inizia a suonare in orari umani: se è alle 20, la gente prende posto un quarto d’ora prima e viene lì per ascoltare le band, non per bere birre e chiacchierare. C’è molta curiosità, le persone danno l’impressione di voler scoprire gruppi nuovi».

Completa la frase: il fatto che il nuovo disco esca per un’etichetta statunitense vuol dire che…
«Vuol dire che torneremo negli Usa. Siamo in fase organizzativa per il 2022, l’unico problema è la politica dei visti: la questione lì si è molto irrigidita ed è un aspetto che ha una ricaduta economica non indifferente. Noi nel ‘15 siamo entrati con un visto turistico anziché lavorativo, un rischio calcolato».
Posso scriverlo o poi vi ritrovate l’Fbi sotto casa?
(ride) «No, non verranno da noi. Oggi avere un appoggio come la Little Cloud ci consente di avere la prospettiva di un importante radicamento nel territorio. Poi sarà bello rivedere alcuni fan con cui siamo rimasti in contatto in questi anni».
Che cosa hai imparato dallo shoegaze?
«A non avere confini».
È una risposta paradossale: lo shoegaze è considerato un genere musicale monolitico e ripetitivo.
«Sì, viene considerato super chiuso. In realtà lo shoegaze insegna che all’interno di un approccio ben codificato la libertà è massima. Nel calderone trovi band violente, eteree, oscure: in pratica tutte le manifestazioni sonore possibili. Tu hai dato una definizione emblematica di shoegaze, punk per introversi: questa introversione si sviluppa in modi sempre diversi».