Il dream pop in purezza: “Heaven or Las Vegas” dei Cocteau Twins

Nei primi anni Novanta non parlavo l’inglese. Per la verità neanche adesso credo di essere un poliglotta, ma questo è un altro discorso. L’inglese era una lingua difficile da imparare, con tutte quelle vocali da pronunciare in modo sempre diverso: mai una volta che andasse bene. Così quando canticchiavo le mie canzoni preferite – Michael Jackson, soprattutto – mi arrangiavo come potevo, inventando parole a caso e sperando che nessuno se ne accorgesse. La tecnica me l’aveva insegnata Federico, un cultore dei Queen che sosteneva di aver imparato l’inglese leggendo una sola volta il testo di Bohemian rhapsody e ricantandolo in maniera creativa: “Fregatene delle vocali – mi diceva – il segreto è nel modo in cui pronunci la lettera erre. Se il suono che tiri fuori è quello di trapano in azione alle 8 del mattino, sembri un turista italiano che va in un ristorante a New York e ordina tre piatti di maccheroni. Se invece riesci a imitare il ringhio di un jack russel terrier affamato e fumantino, beh, allora non c’è bisogno che tu sappia altro”. Devo dire che quell’inglese farlocco mi riusciva abbastanza bene: azzeccavo tutti i baby, i black e i white del testo di Black or white, il resto erano parole magiche e inesistenti, create attraverso una sintesi primordiale di inglese urbano e siciliano mistico, una sorta di esperanto involontario che serviva solo a legare le note anziché unire i popoli. Ecco, in un certo senso il mistero di una lingua che, pur essendo universale, è per quattro quinti dell’umanità più un suono che un significato, ha trovato una narrazione dirompente – se non addirittura scioccante – nella band più eterea e audace di tutte: i Cocteau Twins. Perché le loro canzoni hanno mandato fuori di testa non solo noi che ci esercitiamo in metro con Babbel, ma anche i più avvantaggiati di tutti, quelli che – beati loro – nascono con la lingua giusta in bocca: gli anglosassoni.

Un sacco di meloni

Chiamate Alberto Angela

“La gente dice che siamo malinconici, ma per me vuol dire che mangiamo troppi meloni”, dice nel 1990 Robin Guthrie, chitarrista e cofondatore della band britannica. Sarà stato contento il suo urologo, probabilmente. Però è una risposta in linea con il personaggio, che nasce punk e che non ama etichette, stereotipi, pigrizie intellettuali. Come fai d’altronde a racchiudere i Cocteau Twins in uno schema, proprio loro che hanno inventato un pop inaudito, nel senso di mai ascoltato prima: sognante ma anche allucinato, rarefatto eppure solido, inquieto, metropolitano. Poi c’è lei, ovviamente: Elizabeth Fraser. Una voce che è uno strumento accordato da Dio, che non solo tocca note sovrumane e soprannaturali, ma modella le melodie attorno a parole che qualcuno definisce glossolalia, ma che per me sono solo il linguaggio segreto dei cuori sensibili: il messaggio arriva, senza bisogno di note a margine. Solo che molti vivono le canzoni dei Cocteau Twins con lo stesso stato d’animo di chi fa la moviola a Mulholland Drive di David Lynch: ovvero, si prendono male se non capiscono le virgole.

La fine del sogno

Foto: profilo ufficiale Facebook

Per fortuna nel 1990 – esattamente trent’anni fa – esce l’album che cambia tutto e che comincia a diradare la nebbia dai testi dei Cocteau Twins. Heaven or Las Vegas non è solo il disco definitivo della band e non è soltanto la definizione di dream pop in purezza: è anche un lavoro che muove i suoi passi al di là della dimensione del sogno. Quando viene pubblicato l’album, il trio si trova a far di conto con la realtà. La dipendenza di Guthrie dalla cocaina è sempre più forte. Simon Raymonde, bassista e tastierista, perde il padre. Poi c’è Fraser, che trova il modo di raccontare la sua maternità – e il rapporto con Guthrie – nelle canzoni. Insomma, sembra che la rivoluzionata – nel bene e nel male – quotidianità di questi ragazzi li abbia spinti verso una maggior chiarezza interpretativa. Oddio, non esageriamo.

Tipo la sigla di Dawson’s creek

Heaven or Las Vegas è un disco importante non solo perché contiene alcune delle canzoni più belle dei Cocteau Twins (Cherry-coloured funk, Iceblink luck e Heaven or Las Vegas sono in pratica i libri di testo obbligatori di tutto il dream pop dei decenni a venire), ma anche perché segna uno scarto artistico rispetto al passato. Fraser apre la sua voce a nuove sfumature espressive, sempre brillante e irraggiungibile, però in qualche modo più umana ed empatica: senti che non canta dall’iperuranio, ma ti guarda negli occhi e ti tende la mano, facendoti capire qual è la sua scelta tra il paradiso e Las Vegas. Guthrie invece impone ancora una volta il suo standard, imitato da chiunque abbia tenuto in mano una chitarra ma mai uguagliato da nessuno: arpeggi e riverberi disegnano un’epica dolce e nostalgica, tipo la brezza del mare che accarezza l’aria dell’ultimo giorno d’estate. (Quell’esatto momento in cui capisci che, tutto sommato, anche intorno a te c’è spazio per la bellezza). Senza questo disco, insomma, non ci sarebbe stato nulla di ciò che amiamo così tanto.