È abbastanza strano che anche quest’anno su Shoegaze Blog ci sia la classifica dei 20 migliori album shoegaze e dream pop del 2023. Qualche mese fa, infatti, avevo annunciato un’interruzione temporanea – sparando ironicamente una cifra molto My Bloody Valentine: 22 anni! – degli aggiornamenti, perché per me e per le altre persone che collaborano non è semplice gestire nel pochissimo tempo libero un sito che deve tenere il ritmo delle numerossime uscite discografiche, molte delle quali degne di nota. Solo che poi ci sono stati due eventi che era impossibile ignorare e dunque sono volentieri tornato a parlare di shoegaze, che – a prescindere da ciò che accadrà in futuro – continuerà a essere la musica che amo di più.
Il gran ritorno
Il primo evento, ovviamente, riguarda il gran ritorno degli Slowdive con il nuovo album, l’attesissimo e chiacchieratissimo Everything is alive. I superlativi in questo caso non sono sprecati, perché in effetti il disco ha spaccato in due il pubblico. Da una parte c’è chi l’ha amato e ne ha parlato in termini a dir poco entusiasti. Dall’altra c’è invece chi ne è rimasto deluso, sia pure con toni generalmente sfumati: la lezione di Souvlaki è chiara a tutti e nessuno ha voglia di fare la fine di quel tizio che trent’anni fa scrisse che preferiva annegare nel porridge piuttosto che ascoltare quell’album. (Una stroncatura che si è trasformata prima in boomerang e poi in meme, anzi in memento: mai fare i gradassi). A differenza del disco del 2017, che era un ritorno a tutto tondo degli Slowdive, in Everything is alive la musica gira in modo diverso: l’epica chitarristica di un tempo si è trasformata in una sorta di cantautorato alternativo. Dunque, probabilmente non è un caso che gli elogi più convinti siano arrivati da chi non bazzica abitualmente lo shoegaze. E allora se è vero che non è il loro miglior lavoro, è altrettanto vero che attendersi dagli Slowdive sempre il solito menu non renderebbe giustizia alla storia di un gruppo che, peraltro, non ha mai fatto un disco uguale al precedente.
Bellezza chiama bellezza
Il secondo evento impossibile da ignorare è qualcosa a cui tengo di più: negli ultimi dodici mesi sono usciti parecchi dischi italiani stupendi che vanno ascoltati, amati, raccontati, condivisi e supportati. Human Colonies, The Backlash, We Melt Chocolate e altri ancora che scoprirai leggendo una classifica che è tutt’altro che monolitica: c’è lo shoegaze al sapore di indie rock dei Feeble Little Horse, c’è la riconferma dei Laveda, c’è il pop tridimensionale delle Softcult. Scopri tutti gli album, balla questa musica totale e prova a raddrizzare con la passione e la gentilezza un mondo che di anno in anno diventa sempre più storto, brutto e atroce. Bellezza chiama bellezza e queste band sono portatrici sane di meraviglia.
20. Six Impossible Things, The physical impossibility of death in the mind of someone living

La traccia che più di tutte riassume lo spirito del nuovo, bel disco dei Six Impossible Things è senza dubbio la nostalgia dream pop di Twenty something, un inno alla giovinezza, a quei giorni in cui si passavano giornate a pensare a tutto per non pensare a niente. «Back then I used to sit in my car listenin’ to songs no one would hear alone, consumed by fear». Eccoci.
19. The Backlash, Rise

Fare musica è una questione di principio: andare per la propria strada e vaffanculo alle soluzioni comode, alle scelte facili, ai trucchetti ridicoli. I Backlash sono proprio così, un gruppo che da anni costruisce un percorso di coerenza, talento e testardaggine: non sono 100% brit pop, non sono 100% psichedelia, non sono 100% shoegaze, sono un po’ tutte queste cose insieme. E anche qualcosa in più.
18. Death Of Heather, Forever

La band thailandese ha una passione per suoni che impattano violentemente ma che, al tempo stesso, conservano una delicatezza che è tipica di chi nasconde nel caos la propria malinconia. Forever non ha guizzi stilistici particolari, è totalmente dentro gli schemi del nugaze (il big bang alternato con l’esatto contrario, il vuoto assoluto), però ha soluzioni armoniche che funzionano eccome. Ah, i Bdrmm hanno remixato due brani dell’album.
17. Bdrmm, I don’t know

I Bdrmm sono una gran band shoegaze che quest’anno pare impegnata in una forma alternativa ispirata alla contaminazione di generi come il grunge, l’elettronica e il post punk: quasi un passaggio d’anima come furono Kid A ed Amnesiac per i Radiohead. L’album si compone di otto tracce organizzate e decostruite dalla loro originaria essenza, ma impregnate di colorate nuance distorte. Una tavolozza klimtiana dove vengono spalmate melodie su ampie e ipnotiche suggestioni, un carillon di armonie elettriche nel futurismo proto-shoegaze che funziona sempre. (Agnese Leda)
16. Flyying Colours, You never know

Gli australiani Flyying Colours quando mettono in circolo un album lo fanno con la certezza che sia un ottimo lavoro e il loro terzo album You never know è curato nella produzione e ha connotati shoegaze per la sua impronta sonora sferzante e travolgente, restando nostalgico tra delay, distorsioni e doppie voci serene che si rifanno al duplice effetto graffio/carezza vissuto dagli Slowdive o dai My Bloody Valentine. Spazio anche a degli esuberanti synth schiacciati dai Big Muff delle chitarre che, come perturbazioni dal Pacifico, diventano telluriche e coinvolgenti e accompagnano ogni traccia refrain su refrain, diventando un gioco vispo come quello iniziato ai tempi dai Lush e che non finirà mai, si spera. (Agnese Leda)
15. Slowdive, Everything is alive

Come tutti gli eventi sovrannaturali, nel quinto album gli Slowdive hanno azionato ciò che serve per un’esplorazione di atmosfere distanti dalla Terra. L’irrealismo magico dello gruppo ci afferra diventando vortice, perduto viaggio, entusiasmo difficile da fermare. Sono meccaniche astrofisiche le note che formano le otto tracce emotive dell’album, ne amiamo il dialogo onesto e fragile compreso nei drammi riverberati delle chitarre, nella ritmica che sembra battito cardiaco da Funeral party dei Cure e nelle voci amiche di perduti astronauti che viaggiano su synth interstellari in giri di accordi anche acustici. Per noi l’attesa non è stata vana, anzi. (Agnese Leda)
14. Drop Nineteens, Hard light

Il ritorno dei Drop Nineteens non è senz’altro meno significativo rispetto a quello degli Slowdive. Il gruppo statunitense riprende in mano il proprio destino e a distanza di trent’anni quella foga, quel talento, quella consapevolezza non hanno avuto il benché minimo cedimento. Un gruppo che suona benissimo, un album che gira che è una meraviglia.
13. Gae Vinci, Lonely ballads

Gae Vinci, musicista e produttore siciliano ormai stabilito a Milano, creatore della label indipendente Bloodonthetracks, quest’anno ha deciso raccogliere le sue idee in un lavoro intimo che ha preso il volo. L’autore, accompagnato da altri musicisti, ha elaborato rumori in ballate per shoegazer che si susseguono all’ascolto elegantemente. Un album fatto con il vento dei Duster, la quiete dream e maliconica dei Low, nel buio epico dei Dead Can Dance, come un caro signor Badalamenti impregnato di perduta elettronica. (Agnese Leda)
12. True Sleeper, Loving you in parallel dimensions

Il cantautorato dream pop di True Sleeper arriva a una svolta con un disco dai toni più scuri, elettronici e forse psichedelici, ma mantenendo le stesse caratteristiche base: una scrittura superiore, un controllo assoluto della materia, una felice tendenza ad andare fuoripista, a cercare l’ignoto, a rincorrere crescendo. In qualunque dimensione questi brani suonano benissimo.
11. Misty Coast, Nevereverending

Un super album dream pop che rappresenta bene il genere in questo 2023. I Misty Coast lo hanno prodotto contemplando con il loro misticismo laghi norvegesi e magari i riverberi delle aurore boreali che non accecano ma ispirano. Nel gelo di queste atmosfere nascono tracce che scaldano ma restano congelate nel tempo, una raccolta di doni adatti ad ascoltatori sonnambuli che adorano il sound sognante da beat generation e uno stile compositivo ispirato a Brian Eno. (Agnese Leda)
10. We Melt Chocolate, Holy gaze

Holy gaze è un inno alla nostra musica preferita e alla sua attitudine. Con la band fiorentina collaborano Francesco D’Elia, Sebastian Lugli (Rev Rev Rev) e Ben Moro (The Sensitive Club) e insieme mettono in circolo un elogio al genere. Dall’anima soave e giocosa del cantato alle dure distorsioni che si sfogano liberamente mentre lo sguardo resta eternamente fisso sulle scarpe e il mondo attorno fluttua indisturbato facendo guai strabilianti. Un suono senza tempo e perciò contemporaneo. (Agnese Leda)
9. Wednesday, Rat saw God

Qualcuno ha tirato fuori per i Wednesday la definizione countrygaze, che pur essendo molto affascinante – i riff di Chosen to deserve in effetti fanno pensare a dei Big Thief con più cazzimma – forse non descrive con precisione tutto ciò che fa questa band che ama le maxi distorsioni, le paranoie quotidiane, le tenerezze semplici, i dettagli che raccontano una vita in un secondo: «I like sleeping with the lights on, you next to me watching formula one».
8. Softcult, See you in the dark

«Someone died on the evening news, I don’t know why but I thought of you, lose my mind when I think what I would do», cantano le Softcult in Love song, ovvero l’amore raccontato secondo le angosce della contemporaneità più stretta. Il lato oscuro di questo duo si traduce in un robusto dream pop valvolare, orecchiabile e ad altissimo tasso di emotività.
7. Human Colonies, Kintsukuroi

È il classico esempio di album in cui senti che c’è la vibrazione giusta: che si tratti di un’oscillazione armonica alla My Bloody Valentine (Kintsukuroi), una discesa libera indie rock (WAWWA) o un rumorismo dolce ma implacabile (Air 909), gli Human Colonies non sbagliano niente e tirano fuori il disco perfetto. In ascolto costante e ripetuto.
6. Echo Ladies, Lilies

Quel nome dal taglio post punk è un omaggio agli Echo & The Bunnymen, ma il gruppo svedese non propone nostalgia e non vuole essere estetica: si butta invece a capofitto su canzoni in cui la malinconia è un’emozione da vivere nel modo più intenso possibile, col batticuore più forte che c’è. Il suono minimale, magico e sognante degli Echo Ladies è imperdibile.
5. Hotline TNT, Cartwheel

Basta il primo giro di accordi di Protocol, il brano d’apertura di Cartwheel, per rendersi conto che ci si ritrova di fronte a un classico istantaneo. C’è una scrittura forte, c’è un fracasso pop divertente e compiuto, c’è l’esuberanza di chi vive i vent’anni per quello che sono: una sequenza assurda, misteriosa, bellissima di situazioni da rivivere ad altissimo volume.
4. Glazyhaze, Just fade away

Già la copertina è feticismo puro per chi ama il rock alternativo: le immancabili scarpe che fanno total shoegaze, la candela che richiama Daydream nation dei Sonic Youth, l’ampli Fender che si erge tipo monolito nero di 2001: Odissea nello spazio. È un’immagine che suona semplicemente guardandola. E il disco? Si inoltra nella foresta nera dei Cure, dei Be Forest, di quella musica inquieta che è un po’ la nostra carta d’identità: dice tutto di noi. Viva i Glazyhaze.
3. neraneve, neraneve

Quella dei neraneve è la sorpresa più bella perché inaspettata. Un gruppo che sembra essere sbucato fuori dal nulla e che ha saputo trovare le parole giuste e le armonie necessarie per dirci che quella corrente che una volta si chiamava italogaze ha ancora parecchio da dare. I brani dell’ep oscillano tra il buono e il clamoroso, una sorta di sintesi perfetta tra Stella Diana e Klim 1918.
2. Feeble Little Horse, Girl with fish

«Siamo ancora noi che ce ne andiamo in giro: questo è ciò che facciamo anziché giocare con i videogiochi», dice il bassista Sebastian Kinsler. Ecco, nel nuovo disco dei Feeble Little Horse il classico andamento mezzo scazzato (e mezzo scassato) dell’indie rock si trasforma in una sorta di storia di Instagram senza immagini e senza filtri, una routine giornaliera raccontata in modo frenetico, ironico, diretto, pieno di inside joke tutti da decifrare o da godersi senza pensarci troppo. «How can you be satisfied, she’s 5’1 and you’re 6’5», si sente in Freak. Like.
1. Laveda, A place you grow up in

Tocca ripeterci? Ripetiamoci: che i Laveda – già disco dell’anno nel 2020 per Shoegaze Blog – non siano il nome più grande del Primavera Sound è qualcosa di strano. Di più: assurdo. A place you grew up in è la conferma che questo gruppo se la gioca per il titolo di migliore band al mondo. E intendiamo proprio al mondo, dunque non solo in riferimento a quelle di ambito shoegaze e derivati. Queste nuove canzoni sono la definizione esatta di dream pop: moderne, emozionanti, concrete. Qualcuno avverta Pitchfork, per cortesia.
