Essere umani in un mondo disumano: “Kid A” dei Radiohead

Nel 2000 non c’erano Facebook, l’iPhone, i no vax, il coronavirus, Mr Robot, Donald Trump. In compenso c’erano i forum, i telefonini, i gattini dentro le bottiglie di vetro, la mucca pazza, X-Files e, di lì a pochissimo, George W. Bush. Oggi come allora, una certezza: sempre i Radiohead. Questo per dire che, stringi stringi, le paranoie di vent’anni fa coincidono in maniera sinistra – una terrificante simmetria – con quelle di oggi e i nervi di chiunque continuano a restare scoperti negli stessi identici punti. D’altronde non esistono cerotti per certe ferite, che al massimo si cicatrizzano ma che restano lì, a ricordarti ogni giorno che non importa ciò che fai, ci sarà sempre un grattacapo su misura per te. Peraltro la paranoia e i suoi congiunti – inquietudine, alienazione, fanatismo – sono apparentemente al centro della narrazione del primo disco dei nuovi Radiohead, quel Kid A uscito esattamente vent’anni fa, il 2 ottobre del 2000.

Tanti saluti a Nick Hornby

Già il titolo sembra contenere i semi – geneticamente modificati, ovviamente – di quel complottismo che nel 2000 s’insinua attraverso le prime catene di sant’Antonio online e che nel 2020 si impone come forza di lotta e di governo: il Bambino A è infatti “il sicuramente già esistente primo clone umano”, o almeno così l’album viene presentato alla stampa di allora. Anche se poi è lo stesso Thom Yorke a smentire la storiella: Kid A era soltanto un nome che girava – era il nome di un nostro sequencer”, racconta. È una precisazione importante, perché è vero che la distopia è anche divertente se non diventa maggioranza relativa, ma ciò che emerge da questo album dei Radiohead è qualcosa di ben più significativo di un frainteso racconto di fantascienza. È la descrizione di un’umanità fragile e spaventata che si percepisce senza difese in un mondo senza controllo. Il tema è un classico dell’allarmismo rock ed è il pane quotidiano dei Radiohead sin dal giorno uno: la band britannica però non è mai stata interessata alla semplice rappresentazione stereotipata di un malessere così diffuso. Tant’è che il quintetto decide di mettere in chiaro le cose facendo la mossa che nessuno auspicava: disumanizzare il suono, sostituendo il plettro con il mouse e frantumando la voce – quella voce – fino a farla diventare un glitch appena udibile, un errore del sistema, un cortocircuito che manda in tilt il pop britannico, con tanti saluti al povero Nick Hornby che ci rimane male: amante dei Radiohead di Creep, ora si ritrova davanti a “un gruppo per sedicenni” che “in teoria dovrebbe fare pop” e che invece “richiede la pazienza dei devoti”. Il successivo Amnesiac sarà stato probabilmente peggio di un dito nell’occhio.

La trilogia dell’umanità

I Radiohead di fatto compongono il lamento funebre del decennio e lo piazzano proprio all’inizio degli anni Zero. “Non sono qui, non sta succedendo”, canta Yorke in How to disappear completely, l’unica – o quasi – goccia di struggente pop vecchia scuola in mezzo a un crashtest di synth e drum machine. Thom Yorke (che nel ’95 definì la sua band come le Nazioni Unite, in cui lui è l’America) ha trovato ispirazione più nei Boards Of Canada, nei Lali Puna e negli Autechre che nel rock propriamente detto. Gli sgambetti ritmici in infuso electro (Morning bell), l’allarme rosso nucleare di Idioteque, la dissoluzione free jazz sotto un martellamento noise di The national anthem sono solo alcuni degli episodi di un disco che racconta la vita moderna in maniera frammentata e sfuggente, attraverso un flusso di paure in costante aggiornamento e ossessioni che mozzano il fiato. Anche se il disorientamento di Kid A è così profondo e trasversale – tanto che funziona fin troppo bene pure se applicato alla nostra quotidianità perennemente connessa – qua e là emergono tracce di resistenza alla resa: i Radiohead danno l’impressione di volersi opporre a una scontata apologia della sconfitta, come se fossero intimamente convinti che il corso degli eventi, sia pur ben indirizzato alla catastrofe, non è ancora segnato. Essere umani in un mondo disumano, il punto è tutto qui. Questo disco mi piace dunque immaginarlo come il primo capitolo di un’ideale trilogia dell’umanità, di cui fanno parte anche Third dei Portishead e Double negative dei Low. Sono album che condividono con Kid A la stessa visione del mondo e della musica: ovvero, la vita è un gran problema, ma vale la pena tentare. Nonostante tutto.