Nei giorni scorsi è uscita una bellissima riedizione in vinile colorato di Just for a day, disco d’esordio degli Slowdive pubblicato nel 1991. Ecco, NME ha raccontato che cosa voleva dire all’epoca essere nei panni di Neil Halstead, Rachel Goswell, Nick Chaplin, Christian Savill e Simon Scott: «Ora può sembrare folle, ma nel 1991 saresti stato deriso per aver apprezzato gli Slowdive». In effetti la narrazione della carriera degli Slowdive è un romanzo di formazione incardinato sui temi di ascesa, caduta, rinascita. Oggi la band inglese ha oltre 800mila ascoltatori mensili su Spotify, ma la sera dell’ultimo concerto del gruppo prima del lunghissimo inabissamento – Londra, dicembre 1993 – ci sono a malapena trecento persone in una sala che ne può contenere settecento. In effetti, nell’arco di appena quattro anni di attività live, ovvero dall’89 al ’93, più altri due anni di dissoluzione lenta che porteranno al conclusivo Pygmalion – che rappresenterà per due decenni le dimissioni degli Slowdive come band – il quintetto britannico passa rapidamente dalla rampa di lancio al massacro universale.
Le canzoni migliori

Nel 1991, prima di Just for a day, gli Slowdive venivano raccontati in questi termini: «Lowpoints? None. Peaks? Lots and loads and millions». I componenti della band insomma si ritrovano a nemmeno vent’anni d’età con tutta la stampa musicale dalla loro parte: quello che serve adesso è un disco vero e proprio. Per convincere Alan McGee, boss della Creation, il chitarrista e cantante Neil Halstead gli dice che hanno un sacco di pezzi nuovi: solo che non è vero. «Avevamo messo tutte le nostre canzoni migliori in tre ep quell’anno. C’era una pressione enorme per realizzare un album senza che avessimo davvero il tempo per comporre o per fare le prove», racconterà molti anni dopo il chitarrista Christian Savill. Fatto sta che Just for a day nasce così, di corsa e senza pensarci troppo, tanto il momento è propizio e attendere oltre è l’errore da non fare: tutti infatti si aspettano che questi ragazzi introversi possano diventare i Cocteau Twins degli anni Novanta, ma con un appeal commerciale più ampio e trasversale per reggere la botta in arrivo proprio in quei mesi dagli Stati Uniti, altezza Seattle.
Troppa attenzione, troppo presto
Il primo articolo su Just for a day arriva poco prima della pubblicazione dell’album, che avviene nel settembre del ’91. «Il nostro manager mi ha telefonato dicendo: “Nick, abbiamo avuto la nostra prima recensione negativa … “. Me l’ha letta e non era poi così male, ma nemmeno bella. Era un pezzo di NME o Melody Maker, in cui si diceva che “la voce era stonata”. Alla fine, è stato un segno premonitore di ciò che sarebbe arrivato in seguito», ricorderà Nick Chaplin, il bassista. In effetti quello è l’antipasto, perché – a parte alcune eccezioni – poi arriverà una slavina che negli anni a seguire seppellirà tra insulti e stroncature la carriera della band: succede insomma che distruggere gli Slowdive diventa uno degli sport preferiti del Regno Unito. C’è per esempio Ritchie Edwards, chitarrista dei Manic Street Preachers poi scomparso nel nulla il primo febbraio 1995 (e dichiarato presunto morto nel 2008) che la tocca piano quando dice di odiare gli Slowdive più di Hitler. Melody Maker – non ho trovato la fonte originale, ma la ricostruzione è credibile – la fa breve e definisce il disco «una fottuta delusione» e che la band è stata rovinata da «troppa attenzione, troppo presto».
Eppure quel disco è l’epicentro di tutto

«C’era una cultura nel contribuire a costruire da zero la carriera di una band e poi essere brutali nel buttarla giù», ricorderà Halstead nel documentario che Pitchfork nel 2015 dedica a Souvlaki. È lo scioccante risultato che ottiene Just for a day, che si trasforma nella lettera scarlatta del dream pop. Eppure, è anche l’epicentro di tutto il movimento, esattamente come lo sarà quel Loveless dei My Bloody Valentine, il sovrumano secondo lavoro della band di Kevin Shields. La deflagrazione rallentata ma inesorabile di Catch the breeze, per esempio, diventerà il termine di paragone insuperabile di trent’anni di shoegaze. Celia’s dream, con il suo crescendo di psichedelia languida e onirica, è un pop sfocato e ipnotico che sceglie curve morbide per poi buttarsi a testa bassa su strapiombi assurdi, che esplode stile supernova e si ritira stile risacca al crepuscolo. Questi ragazzi poco più che adolescenti sono i padroni di una musica nuova che chiede empatia a chi ascolta e, invece, ottiene in cambio dileggio e incomprensione.
Fomentare le folle
Ci sarà tempo per altri due album, anch’essi maltrattati con una cattiveria che sfiora il sadismo. È il segnale che per lo shoegaze non c’è più niente da fare: è una rivoluzione timida che non ha scampo in un mercato vagamente reazionario e sicuramente nazionalista come quello del pop britannico di metà anni Novanta. Così, mentre Neil Halstead, Rachel Goswell e gli altri si inabissano progressivamente nel loro fallimento artistico e probabilmente anche esistenziale, in Gran Bretagna tutto diventa Union Jack, tutto diventa calcio, tutto diventa arroganza. La festa sta per cominciare e nessuno vuole dei ragazzini senza troppi grilli per la testa che cantano sottovoce dei ritornelli totalmente inadatti a fomentare le folle e a riconquistare il mondo. Così, nel corpo a corpo sempre più truce, scomposto e forse un po’ costruito tra Blur e Oasis, gli unici a prendere gli schiaffoni veri sono le band shoegaze e gli Slowdive più di tutti, mentre negli Stati Uniti il grunge invecchia improvvisamente dopo la morte di Kurt Cobain e si gode un’ultima, disperata fiammata con gli Smashing Pumpkins. Ma questa è un’altra storia.