Slowdive, Milano. Tutta questa malinconia ci regala tutta questa gioia

Milano, 31 gennaio 2024. «Ma quella è una Stratocaster?!». Il tizio davanti a me al concerto degli Slowdive all’Alcatraz di Milano lo dice con un tono che tradisce sorpresa, ma di quel tipo a cui non sai dare una nota a margine, una sensazione concreta, un hashtag definitivo: è un #wow oppure un #wtf? Il punto va oltre quei nerdismi che animano quotidianamente Reddit: la musica che ci piace di più è il regno delle cosiddette chitarre offset – Jazzmaster, Jaguar, Mustang, per citare i modelli più famosi – e vedere il gruppo fondatore del genere salire sul palco con strumenti considerati eretici (l’unico che suona la Jazzmaster, peraltro non in tutti i brani, è Christian Savill) è un cazzotto ai pretoriani del si fa così e una carezza a chi pensa che lo shoegaze non sia un disciplinare, ma uno stato della mente. Lo dico sempre, lo ripeterò sempre.

Vorremmo essere accanto a Rachel Goswell

Dentro l’Alcatraz l’attesa del concerto è pressione fisica, letteralmente. Arrivo tardi, perdendo l’apertura dei Pale Blue Eyes, e sbatto la faccia su un muro di persone. Un paio d’ore prima l’organizzazione aveva annunciato il sold out della data milanese e non ho mai visto un tutto esaurito più tangibile di questo. A differenza del 2018, stavolta gli Slowdive sono sul palco principale del locale e questo indica il peso specifico di una band che si è presa in dieci anni di reunion tutto quello che, all’epoca dei primi tre dischi, le era stato negato. Ma la cosa bella è che dai loro atteggiamenti non traspare un senso di rivincita: li osservi e quel che vedi è felicità di aver ripreso un cammino interrotto troppo presto. Rachel Goswell, per esempio, ha lo stesso splendido atteggiamento che avevo notato nel 2014 durante quell’ormai storica esibizione al Primavera Sound, la prima ufficiale del loro ritorno: ride spesso, muove le braccia in maniera elegante, seguendo il ritmo dei brani e dando l’impressione di voler catturare ogni singola vibrazione positiva che giunge dal pubblico. Vorremmo tutti essere accanto a lei a goderci questo momento, queste emozioni, questa condivisione. E in effetti le distanze si azzerano e siamo davvero lì, pure quando Goswell interrompe Kisses perché una persona si sente male, consentendo ai medici di soccorrerla. Tutto risolto, applauso, si ricomincia.

Il meglio arriva alla fine

Essendo la quarta volta che vedo gli Slowdive dal vivo (la seconda all’Alcatraz), noto che il suono a cascata del gruppo rende molto bene all’aperto (Primavera Sound e Magnolia) e soffre un po’ gli spazi chiusi, quantomeno quelli del club milanese. L’impatto acustico delle prime canzoni è altalenante: ottima Shanty (corposa e avvolgente grazie a una sezione ritmica che pesa molto di più che su disco), vagamente irrisolta Catch the breeze (a cui sembra mancare una certa definizione nelle chitarre), da brividi Skin in the game, il capolavoro dolente di Everything is alive. Poi la situazione si fa interessante. Crazy for you è come se provenisse da un universo alternativo, in cui il brit pop non è mai nato e gli Slowdive sono stati la band dell’anno per Nme: ha una tridimensionalità d’arrangiamento che la rende azzeccata su palchi particolarmente impegnativi e prestigiosi come quello, appunto, dell’Alcatraz. Slomo ha ancora magia da svelare a distanza di quasi sette anni dalla sua uscita. Alison ha un passo svelto, molto svelto, e cantarci sopra è una rincorsa costante che mi lascia un po’ perplesso. Decisamente coinvolgenti Souvlaki space station e 40 days, anche se il meglio arriva alla fine: Dagger è marziale, desolata, austera, mentre Golden hair è la chiusura perfetta, un crescendo al quale chiunque, in questa bolla di meraviglia che circonda l’Alcatraz, si abbandona. Ed è incredibile come tutta questa malinconia ci regali tutta questa gioia.