Questa settimana abbiamo un lunedì shoegaze particolarmente denso di proposte, in cui si passa dalla rarefazione all’incendio. E se segui questo sito, sai che qui non ci facciamo mai mancare nulla. Vedrai che questi dischi sapranno appassionarti. Premi play.
Daydream Twins, Solstice for embodiment
Dieci brani per cinquantatré minuti. Negli anni Novanta era la durata minima, oggi che viviamo nell’era lampo di TikTok è La corazzata Potëmkin. Confesso dunque che ho avuto bisogno di più tempo di quanto immaginassi per ascoltare con il giusto respiro questo nuovo album dei texani Daydream Twins. È un disco molto vario che ha dei riferimenti orientati su una visione classica del dream pop. If I fall ha un feeling condiviso con Nothing natural dei Lush e Kiss me dei Sixpence None The Richer, mentre Versions fa venire in mente certe ritmiche ballabili dei primi Chapterhouse. In generale mi ritrovo di più nell’estetica austera della traccia che dà il titolo al lavoro, nel rock alternativo di Take you down e nella dissoluzione melodica di Thousand steps. I Daydream Twins sono bravi e Solstice for embodiment ha i suoi momenti interessanti.
Terraplana, Natural
I brasiliani Terraplana si fanno sentire con uno dei migliori album usciti finora nel 2025. È uno shoegaze mercuriale, vivace, dotato di una densità di suono mai estrema e sempre ben bilanciata. Pezzi come Desaparecendo e Airbag hanno riff che oscillano in un classico tira e molla nirvaniano – la furia, la quiete – mentre le voci si fanno lievi, a filo d’acqua, azzeccate. Salto no escuro ha una coda armonica che non dispiacerebbe al Kevin Shields di M B V, mentre Hear a whisper, con il featuring sussurrato di Winter, è un singolo indie rock che gioca più sul dettaglio che sull’impatto.
Downy, 8th album “untitled”
Sinceramente non è chiaro che musica facciano davvero i giapponesi Downy. È possibile che questo disco sia un off topic gigantesco rispetto alle etichette shoegaze e dream pop. Però dentro questi brani belli, imbizzarriti, violenti e malinconici c’è molta, anzi tutta quella sensibilità che cerchiamo da queste parti. In 剥離の窓 [Separating windows] sembra di sentire i Radiohead più sperimentali e avanguardisti, Foundyou ha le acrobazie armoniche dei Battles, 枯渇 [Depletion] è una specie di frullatone hyperpop, IDM e noise rock, Edge swing è una sorta di shoegaze decostruito dal passo sgembo. Non c’è bisogno di aggiungere altro, direi.
Pale Blue Eyes, New place
How long is now, la traccia d’apertura di New place, ha un introduzione rarefatta che evolve in una risalita ritmica in stile vagamente motorik: ovvero, psichedelia e pedalare. Stesso approccio ossessivo per la successiva Scrolling, mentre con Pieces of you siamo dalle parti dell’emotività dei New Order, quelle melodie estese e bellissime che sono una sonorizzazione del tuo vissuto – passato, presente, futuro. I britannici Pale Blue Eyes azzeccano le mosse e raccolgono quello che meritano: un bell’applauso.
Swervedriver, The world’s fair
Una delle rare band che non delude mai, scrive un fan sulla pagina bandcamp degli Swervedriver, commentando il nuovo ep The world’s fair. Impossibile dargli torto. Il complesso britannico pubblica quattro canzoni notevoli, una lezione di rock alternativo per qualsiasi shoegazer – gen x, millennial o zoomer – in ascolto. Colpisce la produzione ruvida ma raffinata e a tratti audace, dagli sgambetti ritmici di Pack yr vision ai fraseggi pianistici che dialogano con le distorsioni fluttuanti della title track. È un suono talmente poderoso che sembra avere una propria tridimensionalità. Gran disco.
SOM, Let the light in
Il cosiddetto heavy shoegaze è un’onda anomala che parte dall’Op Amp Big Muff usato da Billy Corgan in Siamese dream degli Smashing Pumpkins, prosegue per la catarsi totale degli Hum, trova varchi inaspettati nel metal futuribile dei Deftones e viene condensato nelle distorsioni targate Jesu. Da qui si espande in maniera esponenziale fino a diventare la principale tendenza del nuovo shoegaze contemporaneo. I Som sono probabilmente una delle migliori realtà in tal senso, come dimostra Let the light in: un album pesantissimo in ogni suo elemento – le chitarre sembrano divertirsi a scardinare il loro stesso suono, frequenza dopo frequenza – ma che fa filtrare una delicatezza armonica anche nei momenti più assordanti. Nightmares si chiude con un arrangiamento a martello che è tipico di certi pezzi della band di Chino Moreno. The place that I belong ha un ritornello killer per pressione sonora e tasso emotivo, mentre la conclusiva The light ha un riff struggente, da classico istantaneo.
