Verve, “A storm in heaven”. Molto forte, incredibilmente vicino

Leggendo le pagine del libretto di (What’s the story) Morning glory degli Oasis, si scopre che il brano Cast no shadow è dedicato da Noel Gallagher al «genio di Richard Ashcroft», che all’epoca non se la passa bene. Nella canzone, pubblicata nel 1995, si sente un verso che riassume una vita intera in nove parole: «As he faced the sun he cast no shadow». Un corpo che non proietta ombra alla luce del sole: pare più un epitaffio che un tributo. In quel periodo il cantante dei Verve sembra destinato a essere un nome lasciato alla deriva dello show business, l’ennesima puntata della storia in cui la concatenazione degli eventi è talento ➡️ proclami ➡️ fallimento. O, per citare una vecchia battuta che gira negli ambienti dello spettacolo a New York: «Who’s that girl? Get me that girl! Get me somebody like that girl! Who’s that girl?». A storm in heaven, del ’93, è un bel colosso di psichedelia orecchiabile: zero dono della sintesi e arrangiamenti che si increspano come in una jam session rock. «Voglio essere una popstar, ma la musica che facciamo va in senso opposto», spiega Ashcroft. L’album appare a un primo ascolto come un tentativo di riallineamento dello shoegaze al pop, benché l’effetto finale sia opposto e tutt’altro che accomodante: l’elemento fondamentale resta la cantabilità (un paradosso, data la mancanza di ritornelli ben scontornati) ma la band suona con una notevole consapevolezza dei propri mezzi, non si pone alcun vero limite e arriva perfino a evocare certe inquietudini vagamente grunge (in Virtual world si anticipa il decadentismo blues degli Alice In Chains di Rotten apple). «Ho detto che sarei stato in grado di volare. Beh, perché no? Credo davvero che potrei volare se mi impegnassi in tal senso, ma le persone sembrano imbarazzate di sentirmelo dire. Tutti sono imbarazzati a pensare in grande», dice Ashcroft.

Avanguardia e retroguardia

Ecco, A storm in heaven è un grande disco che non pensa in grande, come se fosse contemporaneamente avanguardia e retroguardia: dà l’impressione di rivolgersi a una nicchia vanitosa di gente dagli ascolti raffinati ma incapace forse di cogliere lo zeitgeist. Che in quel momento non è rappresentato dallo shoegaze (quando mai lo è stato?), ma dal brit pop. Eppure, proprio per questo motivo si sente che è un album libero, in cui qualsiasi cosa può succedere, senza calcoli né convenienze: Make it ‘til monday, per esempio, è dream pop cristallino e tagliente, un gioiello. Ma per farcela serve altro. Il cantautore capisce che i suoni vanno ripuliti, asciugati e semplificati: con Urban hymns del ’97 (e il singolone Bittersweet symphony) riuscirà a diventare il più famoso di tutti, solo che quei brani finiranno per chiudere a chiave la carriera dei Verve (la reunion un decennio dopo non lascerà traccia) e trasformeranno il brit pop in modernariato, una classicità senza tempo, ma anche senza futuro. Se è vero che i Verve resteranno dunque per sempre legati a una precisa e ormai lontanissima stagione musicale britannica, il rock metafisico di A storm in heaven continuerà a risuonare molto forte, incredibilmente vicino.