I Low in concerto a Milano, al Teatro Dal Verme. Recensione breve: è stata una delle serate più belle ed emozionanti della mia vita. Può bastare questo? È sufficiente liquidare così un’esibizione tra le più straordinarie che si possano immaginare? Secondo me no. E allora cominciamo dall’inizio. Alan Sparhawk, Mimi Parker e Steve Garrington hanno realizzato il disco dell’anno, Double negative. Un lavoro ostico, estremo, bellissimo: personalmente, lo ritengo il terzo capitolo di un’ipotetica trilogia su che cosa vuol dire essere umani nel mondo disumano di oggi. Idealmente, i Low riprendono il discorso cominciato nel 2000 dai Radiohead con Kid A e proseguito nel 2008 dai Portishead con Third. La fine della speranza come punto di partenza per ritrovare la speranza. Molta elettronica, molto rumore, molta melodia: ricreare dal vivo questi brani (che sembrano prigionieri, distanti, distrutti e ricomposti) era difficilissimo. Renderli ancora più belli e intensi era quasi impossibile. Quasi.
I sogni strisciano nel mondo reale
Quando alcuni giorni fa ho intervistato Sparhawk per l’edizione milanese di Repubblica, mi ha detto una cosa interessante a proposito del processo compositivo dei Low. “Il tuo cervello vuole creare, così se tu dormi tanto la creatività si riversa nei sogni. Quando non dormi a sufficienza invece questi sogni cominciano a strisciare lentamente nel mondo reale”. La privazione del sonno come stimolo alla creatività: se non impazzisci – e Sparhawk, persona molto gentile, sembra tutt’altro che pazzo – diventa un modo per restare vigile quando le idee arrivano ed essere pronto quando la musica chiama. Da quello che si è visto al Dal Verme, la sensazione che ho avuto è di essere rimasto a occhi aperti in una dimensione onirica – minimale e magica al tempo stesso. Il benvenuto l’ha dato Nadine Khouri: voce, chitarra, loop station, pedali e sorrisi. Parla bene in italiano, almeno all’inizio. Il Teatro Dal Verme non è ancora pieno quando comincia a cantare (lo sarà ovviamente con i Low) e il silenzio che l’accoglie non è distrazione, bensì rispetto. Ha una voce calda e una serie di melodie che vanno qui e lì, come baci dispersi in aria che sanno perfettamente dove arrivare. Se c’era bisogno di una sorpresa, è arrivata subito.
“Non premeremo bottoni”

Mi aveva detto questo Alan, a proposito del concerto. “Non premeremo bottoni”. Così è stato. Perché i Low portano sul palco il gemello di Double negative. Lo stesso disco, come se fosse un altro disco. Quorum fa cominciare l’album in un modo destabilizzante, quasi che stessimo ascoltando da una distanza di cento milioni di chilometri un’esplosione nucleare in slow motion. Dal vivo invece Quorum fa iniziare il concerto mettendo l’intero teatro al centro di quella deflagrazione, rendendola tangibile e concreta, e non solo una potente astrazione cerebrale e destrutturata. Chitarra, basso, batteria e voci: basta questo. Tempest, che del disco è il pezzo cardine, quello attorno al quale ruota il suono dei nuovi Low, sul palco si trasforma in un capolavoro a metà tra post rock e folk: il basso suona come una tastiera sbriciolata da un effetto sintetico simile al bit crusher, la chitarra diventa semplicemente un insieme di tuoni e fulmini, la batteria puntella e scandisce e le voci riempiono ogni spazio intorno. Francamente, poche volte ho ascoltato qualcosa di così equilibrato, emozionante e coinvolgente. E quando alla fine i Low chiudono un’esibizione incredibile con Murderer, tutto diventa perfetto, assoluto, risolto. “Spero che possiate conservare un po’ di speranza”, dice alla fine Alan. Cantare la fine del mondo e riuscire a guardare oltre tutte queste macerie: così sia, allora.