Su internet si legge che i Whip Hand sono il segreto meglio custodito del dream pop italiano. Se fosse davvero così ci sarebbe da rattristarsi un po’, perché questa band è tra le più valide in circolazione e non soltanto in Italia. Però probabilmente la situazione è destinata a cambiare in meglio grazie a Sometimes, we are, il nuovo album (Mia Cameretta Records, Lady Sometimes Records), un gioiellino di riverberi e oscurità, un inno alla vita senza retorica né furbizia, ma semplicemente con tutta l’onestà possibile.
Una domanda classica per un titolo inusuale: mi parlate dell’origine di Sometimes, we are e del perché avete scelto questa frase per il disco?
“Sometimes, we are nasce dalla necessità di riprendere in mano la propria vita, rendersi conto di essere gli unici artefici del proprio destino e di non lasciarsi condizionare da nessun fattore esterno. È un grido liberatorio, una convinzione che arriva pian piano. Sometimes, we are va inteso come: noi siamo, esistiamo, ma dobbiamo rendercene conto. È un disco che parla di noi, della nostra difficoltà di conciliare quello che siamo e quello che la gente si aspetta da noi, non solo nell’ambito musicale, ma anche (e soprattutto) nei rapporti interpersonali”.
Questo album mi sembra che suggerisca una nuova idea della musica dei Whip Hand, forse più consapevole e sicuramente meno acerba rispetto al passato. Quanto conta il suono all’interno di un brano, quanto ci lavorate?
“Mai come questa volta ci siamo soffermati tanto nella composizione e negli arrangiamenti dei brani. I brani sono stati vivisezionati a lungo attraverso lunghe sessioni di pre-produzioni realizzate direttamente nella nostra sala prove. Ogni traccia ha decine di versioni di prova poiché volevamo arrivare in studio con le idee più chiare possibili. Anche la scelta del fonico (Filippo Strang) non è stata casuale: è uno dei pochi in Italia che è sulla nostra stessa lunghezza d’onda per quanto riguarda il sound che un disco deve avere. Siamo soddisfatti al 100% di come suona questo disco”.
Il video di Already gone sembra prendere di mira le due più grandi ossessioni degli italiani: il cibo e gli smartphone. È curioso perché nelle immagini quello che emerge è un’incomunicabilità totale fra le persone: un paradosso se pensiamo che pranzi e cene nascono nel segno della convivialità e che i telefonini dovrebbero aiutare le persone a comunicare più facilmente. Stiamo diventando secondo voi un popolo di alienati?
“È bella questa interpretazione! Abbiamo volutamente scelto di non essere troppo espliciti nel video. Ognuno tragga da sé le proprie conclusioni. Più che ossessioni, volevamo dare l’impressione di una casa vissuta da tante persone diverse che pensano solo alle loro faccende e alla loro routine senza interagire con nessuno. Pian piano però la situazione degenera e le persone nel video finiscono per essere intrappolati in questo loop, rischiando di perdere la testa. Siamo già diventati un popolo di alienati. Ci si è scordati di cosa vuol dire vivere veramente e quali sono le cose realmente importanti. Come emerge anche nel video, solo quando si arriva al limite ci si rende conto davvero di quello che sta succedendo intorno a noi”.
Esiste un lieto fine nelle canzoni dei Whip Hand? A giudicare da come si chiude il disco (con una canzone intitolata Regret theory e un verso che dice “Everytime I see you cry, there’s nothing that I can do to make you smile”) sembrerebbe proprio di no.
“Non riusciamo mai a fare una canzone dove tutto fila liscio! Questo disco è solo apparentemente positivo e allegro. Il retrogusto di malinconia è dietro l’angolo, specie se si leggono attentamente i testi”.
In Italia hanno successo canzoni che non hanno bisogno di essere prese sul serio
Com’è essere artisti nell’era dell’intrattenimento totale? Quali sono le implicazioni per una band, soprattutto indipendente come lo siete voi, se tutto – un post su Facebook, un meme, persino una figura di merda trasformata in gif – prende il sopravvento e ottiene più impatto mediatico di una canzone?
“Non è facile. La gente ha un’attenzione molto limitata, ecco perché escono sempre più singoli con video e meno dischi. Anche le canzoni possono avere impatto mediatico, ma è più difficile, specie se non si è sotto major, come noi. La cosa che più ci spaventa è che la gente sta finendo per dare lo stesso peso a un meme o una canzone, senza considerare che dietro un prodotto musicale ci sono una serie di cose spesso sottovalutate. Ecco perché in Italia, ora più che mai, hanno successo le canzoni che non hanno bisogno di esser prese sul serio. Vale davvero di più strappare una risata rispetto al suscitare emozioni o lanciare un messaggio? Tutto questo è abbastanza triste”.

Qualche tempo fa Alan Sparhawk dei Low mi ha raccontato di come la privazione del sonno sia un metodo efficace per essere creativi – per lo meno nel suo caso funziona. È una cosa interessante che secondo me in qualche modo potrebbe riguardare anche chi come voi fa dream pop, un genere che già dalla parola stessa implica una certa connessione tra sonno e veglia. Voi in fase di composizione vivete la musica in un modo così fisico oltre che mentale?
“Ci fa piacere che Alan Sparhawk riesca a essere produttivo senza dormire. Noi che siamo un gruppo che è tutto il contrario dello stereotipo delle rockstar non riusciamo a comporre in questo stato! Viviamo la composizione in una maniera molto classica: ci vediamo e proviamo fino a quando non siamo tutti soddisfatti. Anzi, se uno di noi quattro non è pienamente lucido sia dal punto di vista fisico che mentale, ce ne accorgiamo e ci interrompiamo”.
Il miglior periodo per questo genere musicale è stato qualche anno fa
Che cosa pensate dell’attuale stato di salute della scena shoegaze e dream pop italiana? Ritenete che ci siano margini di crescita anche da un punto di vista mediatico?
“È sempre stato difficile predire la moda. E sì, parlo di moda perché purtroppo i gusti della gente, specialmente qui in Italia, sono facilmente influenzabili. Il miglior periodo per il nostro genere musicale lo si è avuto qualche anno fa, quando il fenomeno indie è scoppiato in tutto il mondo. La maggior parte dei gruppi dream-pop e shoegaze di allora adesso fanno altro. Speriamo che pian piano, grazie a noi o a gruppi fortissimi come i nostri amici Human Colonies, torni la voglia di supportare a pieno questo genere musicale forse un po’ lasciato nel dimenticatoio”.
Premi play: quattro dischi consigliati dai Whip Hand
Luca (voce, chitarra): Title Fight, Shed. “Questo disco lo sto ascoltando a ripetizione in macchina. Non c’entra nulla con quello che facciamo, è vero, ma trovo che sia geniale da molti punti di vista. Quell’attitudine da college americano nelle melodie mi fa impazzire”.
Gianni (chitarra): The War On Drugs, A deeper understanding. “È un disco che è in grado di riportare alla luce elementi rock ‘80s ai giorni nostri rimanendo sempre originale. I suoni puliti e curati uniti alle code chitarristiche non stancano mai. Una delle mie band preferite dopo averli visti live quest’estate”.
Gianluca (batteria): Verdena, Il suicidio dei samurai. “Da quando ho scoperto questo disco non riesco ad abbandonarlo per più di qualche giorno. Essendo batterista, non posso che adorare il modo in cui suona Luca Ferrari in questo disco”.
Francesco (basso): Elliott Smith, Figure 8. “È un disco completo sotto molti punti di vista, sia musicalmente che sentimentalmente. Per me resta intramontabile. Al di là di questo, Elliott Smith è uno di quegli artisti maledetti (meno noto di altri) che, con i suoi brani, ha accompagnato questi mesi recenti della mia vita”.