Ho scoperto lo shoegaze molto tardi.
Non è un’ammissione di colpa, ma una mera considerazione. Avete presente quelle persone che davanti alla terza o quarta birra ammettono di aver aspettato un sacco di tempo prima di scopare? Mica sapevo cosa mi stavo perdendo, sussurrano mentre ingollano l’ennesimo sorso. Ecco, uguale.
Sono nato agli inizi degli anni Novanta
Sono nato agli inizi degli anni Novanta e ho frequentato il liceo nel nuovo millennio. A quei tempi mi sentivo un ribelle solo perché ascoltavo un sacco di band che urlavano. Più gridavano e più mi sentivo alternativo. Credevo di essere fuori dagli schemi, disallineato alla massa, invece una discreta porzione di quello che compravo era frutto di furbesche operazioni di marketing.
Se qualcuno alle superiori mi avesse chiesto cosa fosse lo shoegaze io avrei risposto una marca di vestiti, un nuovo tipo di carburante, o cose così insomma. E pensare che ero uno curioso: suonavo in un sacco di band, leggevo una marea di riviste musicali, bazzicavo negozi di dischi della provincia un giorno sì e l’altro pure, ma quella parola mi era completamente estranea.
Accadde poi che un musicista più grande mi chiese di fare una prova con la sua band. Io dissi sì, non perdevo occasione per picchiare sui tamburi. Arrivati in sala prove mi sistemai dietro la batteria. Loro s’infilarono i tappi nelle orecchie. Vecchi bacucchi, pensai tra me e me. Ai piedi una sfilza infinita di pedali. Lucine rosse, blu, verdi, azzurre lampeggiavano con insistenza: il pavimento pareva una pista d’atterraggio. “Facciamo un giro di prova, così, giusto per regolare i volumi?”.
Al mio quattro un muro sonoro rase al suolo la sala. Nessun urlo, nessuna distorsione, solo un gigantesco e potentissimo uragano di riverberi, e io che picchiavo, picchiavo e picchiavo ancora, ma mi sembrava che non fosse mai abbastanza.
Poi il muro era crollato lasciando spazio ad armonie più dolci, a voci soffuse e ovattate, ma il mio udito era ormai compromesso. Quella serata non avrei capito molto altro. Uscii dalla sala prove sconvolto. Tornato a casa andai a dormire con una grande confusione nella testa. C’era qualcosa che non tornava: come potevano tanta violenza e tanta dolcezza convivere? Il giorno seguente lasciai che YouTube mi facesse da maestra, m’indicasse la via. Per prima cosa mi propose i My Bloody Valentine, quel piccolo gioellino dal nome Loveless. Un disco pieno di capolavori, una pietra miliare del genere. Sembrerà ridicolo, ma sapete qual è il primo ricordo che ho? Ora scoppierete a ridere: Touched. È solo un’intro, direte voi. Vero, ma in quei cinquantasette secondi di preparazione alla successiva To here knows when c’era tutto quello che non avevo mai trovato in nessun altro disco.
Era come se fino a quel momento mi fossi limitato a osservare il giorno e la notte, senza accorgermi del fascino dell’imbrunire.
Poi arrivava Come in Alone a dare voce a tutti quei sentimenti liquidi che galleggiavano nella mia mente e che non avevano mai assunta forma sonora.
Seguirono ascolti di altri classici, dai Ride ai The Jesus And Mary Chain – che con Darklands sanno farmi piangere tutte le volte – fino agli Slowdive. Furono proprio quest’ultimi la mia prima esperienza shoegaze dal vivo, alla veneranda età di ventisette anni. Ricordo un Magnolia buio e un freddo anomalo per la stagione. Io in maniche corte che tremavo, non ero pronto a quelle temperature. E poi Rachel Goswell e soci salgono sul palco… sarebbe romantico dire che le loro canzoni scaldarono l’ambiente, ma non fu proprio così. Lo shoegaze non è calore, non solo, è tante gradazioni diverse e contrastanti. I riverberi ci cullarono per un’ora e mezza e ci fecero sentire un tutt’uno, tenuto insieme da una malinconia sensuale rivestita di dolcezza ed eleganza.
Un sacco di fratelli e sorelle
Tutti questi ascolti ed esperienze cambiarono radicalmente il mio modo di comporre e fare musica, facendomi entrare in rotta di collisone con quello che oggi viene definito il panorama Italogaze: una serie di band e persone incredibili, dotate di una gentilezza e sensibilità fuori dal comune. Potrei citarne a bizzeffe: Electric Floor, Novanta, Białogard, Yellow Traffic Light, Stella Diana, Rev Rev Rev e chi più ne ha più ne metta. Sembrava di essere entrato a far parte di una grande famiglia con un sacco di fratelli, sorelle, cugini, dove tutti si davano una mano a vicenda, si consigliavano e supportavano. Per me, che arrivavo dal mondo dell’indie italiano dove la concorrenza spietata e l’invidia mietevano vittime, fu una piacevole sorpresa.
Un giorno un amico mi disse: “Certo, sono tutti così carini perché sanno di non aver speranza in questo paese patria del pop”. Io, che non sono bravo nei botta e risposta, ho riflettuto a lungo sul suo parere e sono arrivato a questa conclusione: chissenefrega.
Lo shoegaze è quel chissenefrega: è mettere in musica i chiaroscuri dell’anima, dare un suono al blu, alla malinconia, a tutti quei sentimenti e sensazioni che non hanno un nome, ma che sentiamo vibrare forte nella carne, premere sulle ossa. È un’esigenza, un bisogno primario.
Ho scritto quest’articolo pensando alle nuove generazioni, a tutti quelli che non hanno mai sentito parlare di shoegaze, ma che ogni volta che ascoltano una canzone in radio sentono mancare qualcosa. Non riuscite a capire cos’è? Provate a cercare qui, forse siete nel posto giusto.
(L’autore di questo post, Giuseppe Musto, è un musicista e scrittore. Prossimamente uscirà un ep del suo progetto Il Ragazzo Del Novantanove. Il suo libro più recente s’intitola “Per ricordarmi di quell’istante” e ha un nuovo romanzo in uscita nel 2019 per Funambolo Edizioni. Gestisce il blog EPlogo).