La perfezione degli Slowdive dal vivo, spiegata in cinque punti

Stasera non ho idea di dove sia finita l’estate. Si troverà probabilmente a centomila chilometri da qui, in un luogo remoto e irraggiungibile che nessuno di noi ha mai visto davvero: intorno a me ci sono felpe scure col cappuccio, sciarpe annodate in modo strano e qualche scarpone che dà l’impressione di essere stato temprato dal fango e dal gelo. Questo anticipo di autunno non trova però occhi tristi ad accoglierlo. Sarà che l’aria intorno è più leggera, quasi rarefatta: ci passi attraverso e ti regala un piccolo brivido. Sarà che la pioggia della mattina è un inciampo di giornata che ormai nessuno ricorda più e la cui unica eredità è una serata fresca e amichevole. Sarà che l’arrivo di settembre è un po’ la primavera dell’uomo: ricomincia la vita e le nostre storie tornano a intrecciarsi con nuove promesse che chissà se riusciremo a mantenere.

L’arrivo degli Slowdive sul palco del Magnolia di Segrate (Milano) è esattamente come me l’aspettavo: è il basso di Slomo, così semplice e completo, ad accompagnarci al centro del momento, mentre intorno iniziano a farsi sentire quei suoni che poi occuperanno la scena per il resto del concerto. Perché gli Slowdive dal vivo sono perfetti per tecnica, tasso emotivo, impatto. Un loro live è un’esperienza da vivere perché diventa un termine di paragone che va ben oltre il ristretto ambito dream pop. C’è insomma un prima e un dopo, quando si parla di un concerto degli Slowdive. Ecco i cinque motivi.

Gli Slowdive a Milano
Gli Slowdive a Milano

1) I suoni sono perfetti

Non sbandare in mezzo a mille effetti, riuscire ad allargare i riverberi senza alterare il delicato equilibrio tra gli strumenti, servirsi di pochissime note per costruire crescendo immensi. Gli Slowdive hanno una padronanza della grammatica shoegaze spaventosa: si lasciano andare tenendo saldo il controllo su tutto. Dal vivo la resa dei suoni è impressionante, una lezione di stile per moltissime band odierne, non solo dream pop. La coda finale di Catch the breeze è esattamente come ci si aspetta: un esempio di professionalità al servizio dell’epica.

2) Le canzoni sono perfette

È incredibile come Alison abbia una freschezza e un appeal tali che potrebbe essere stata composta oggi. Gli Slowdive hanno saputo costruire un repertorio per certi versi unico nell’ambito dello shoegaze, perché meno legato a una certa idea di fondo – rumore gentile, ma pur sempre rumore – e più interessato invece a canzoni che potessero reggere la prova del tempo, al di là degli steccati e delle appartenenze.

3) La scaletta è perfetta

Nessuno va via insoddisfatto da un concerto degli Slowdive. C’è il momento intenditori (AvalynBlue skied an’ clear), c’è il momento disco nuovo (Star roving, Sugar for the pills, No longer making time), c’è il momento greatest hits, o giù di lì (praticamente i pezzi tratti da Souvlaki, tra cui una strepitosa Machine gun). Mamma mia che brividi.

4) Il pezzo conclusivo è perfetto

Al concerto del Primavera Sound 2014 gli Slowdive non suonarono 40 days, dandomi un piccolo dispiacere in una giornata di grande esaltazione per quel live memorabile. A Milano invece chiudono proprio con 40 days, ed è un risarcimento che mi metto in tasca e porto via con me, con il cuore appagato.

5) L’atmosfera è perfetta

Gente che sorride. Gente con gli occhi chiusi. Gente che si bacia. Gente che si emoziona. Gente che il giorno dopo racconta a tutti l’esperienza incredibile di un concerto bellissimo. Raramente ho visto una così perfetta aderenza tra aspettative e realtà. L’effetto nostalgia qui non vale: c’è la qualità di una proposta che negli anni si è consolidata fino a diventare imprescindibile. Anche e soprattutto dal vivo.