Avevo meno di diciott’anni e mi consideravo un artista impegnato solo perché cantavo con la voce di un’anatra moribonda. Inoltre suonavo il basso con l’atteggiamento suicida di chi va in crisi non appena deve suonare più di due note in sequenza. Le premesse giuste, insomma, per una carriera fallimentare nel mondo della musica. Come capii quel giorno che col mio gruppo suonai durante una festa d’istituto. Era il nostro primo concerto. Dovevamo esibirci dopo un rapper che parlava di canne e bei soldoni e si muoveva come se si fosse cacato addosso. Quando attaccammo con Alien dei Bush riuscii a steccare praticamente ogni nota, al punto che, finito il brano, gli organizzatori bloccarono il resto del nostro concerto liquidandoci con un bell’applauso per questi ragazzi. Fu una grande delusione, ovviamente. Ricordo però che in quell’occasione suonò anche un gruppo che faceva una roba magnetica, mai ascoltata prima. Completamente strumentale. Epica e malinconica. Ne rimasi stregato soprattutto perché mi fece capire che è possibile fare una musica emozionante in modo diverso. Molto tempo dopo, quando cominciai ad allargare le mie conoscenze musicali, scoprii che quei ragazzi si erano ispirati a un gruppo che, negli anni, è diventato centrale nella mia esistenza: i Mogwai.
Non esiste un suono alla Mogwai

Che poi, a dirla tutta, non esiste nemmeno un suono alla Mogwai. Questo è solo il frutto della mistificazione operata da una stampa musicale un po’ pigra e da un miliardo di gruppi post rock in cerca d’autore e di pedigree. (E che nessuno si offenda, visto che faccio parte di entrambe le categorie e sono stato in prima linea nell’operazione artistica e mediatica di fraintendimento). Ci ho impiegato un po’ a capirlo. Sono passato attraverso milioni di canzoni strumentali dai titoli lunghissimi e dai delay estremi per rendermi conto che i Mogwai sono diversi. Diversi dagli Explosions In The Sky, dai Mono e da quei mille altri gruppi che adoro, ma che – davvero – poco hanno a che fare con la band scozzese.
Gli arpeggi sono scomparsi
Gli arpeggi, elemento distintivo del presunto suono Mogwai sono praticamente scomparsi dalla circolazione. Persino Every country’s sun, che teoricamente dovrebbe rappresentare il ritorno alle origini, cambia ancora scenario. Coolverine è soltanto l’esca per ingolosire i vecchi fan, anche se non è certo quello che si definisce un classico istantaneo: in questa traccia c’è più atmosfera che partecipazione. Poi però arriva Party in the dark: un singolo perfetto, da costruirci una carriera e campare di prestigio per gli anni a venire. Qualcuno l’ha definita furba: a me pare bellissima, una canzone a metà tra indie rock e shoegaze, inno da batticuore perenne e capogiri emozionali. Non è un colpo a sorpresa: indizi di una direzione simile erano infatti già presenti in molti vecchi lavori, da The hawk is howling a Music Industry 3. Fitness Industry 1. Sarebbe curioso ascoltare ora un intero disco dal taglio così perfettamente pop. Battered at a scramble ha invece un suono denso e multistrato, non troppo distante da certi giri rock dei primi Smashing Pumpkins. E poi c’è la chiusura della title track, un parziale ritorno a quei crescendo che hanno fatto scuola e che i Mogwai sanno bene come costruire. Un epilogo bellissimo e definitivo per una band della quale la musica moderna non può proprio fare a meno. Anche dopo vent’anni.