L’organismo ha appena registrato l’ammutinamento del suo cuore e del suo sistema respiratorio, mentre intorno si sta svolgendo la partita di Coppa d’Inghilterra tra la sua squadra, il Bolton, e il Tottenham, a Londra. Lui, Fabrice Muamba, calciatore congolese di 23 anni cresciuto in Inghilterra, stramazza sul terreno come una mela sfuggita all’abbraccio del proprio albero. È il 42esimo del primo tempo. E Muamba gioca una partita in solitaria sui piani alti dell’esistenza, mentre il suo corpo è fermo come una zavorra che tutti intorno stanno tentando di risollevare: chi agendo, chi pregando, chi sperando. Fatto sta che 78 minuti dopo il giocatore da tecnicamente morto diventa realmente vivo. Questo episodio è successo davvero, nel marzo di dieci anni fa, e a volte mi capita di pensare che cosa avrà visto Muamba, in questo stato di transizione senza sbocchi: credo che possa essere qualcosa di molto simile agli scenari evocati – anzi, messi proprio in scena – dai giapponesi Boris nel loro nuovo disco, W. Che è il contraltare del precedente, No. Quello offre una tempesta ben arredata con suoni metallizzati che sono essenzialmente tuoni e fiamme. Questo, invece, è il racconto di ciò che rimane dopo: paesaggi indefiniti, sospesi, senza contorni ma con tanto vento. Una furia disinnescata dalla grammatica di un dream pop slabbrato – come un rumorismo riprocessato ambient – ma senza le melodie ruffiane che di tanto in tanto rendono stomachevole la malinconia al caramello di un certo tipo di indie pop chitarristico. Uno shoegaze post tutto che necessariamente si rivolge a chi ha ascolti vasti, raffinati, privi di schemi. Sembrano due band diverse, in realtà queste nuove canzoni rappresentano solo il secondo tempo di una narrazione unica, come unico è il titolo dei dischi: No più W fa Now, cioè ora, adesso. Aggiungerei per sempre.
Boris, “W”. Ora, adesso, per sempre
