Il black metal non è mai stato il mio folk, di conseguenza ho sempre avuto un pregiudizio nei confronti dei Deafheaven e non mi sono mai impegnato più di tanto a cercare un modo per entrare nel suono della band statunitense. Va precisato però che il black metal nel loro caso è solo una parte del discorso: in Ordinary corrupt human love c’era per esempio un brano, You without end, in cui sembrava di ascoltare il massimalismo pop di Elton John o dei Queen – ovvio, il cantante-urlatore potrebbe essere nella migliore delle ipotesi un Mercury alle prese con un pesante mal di gola – e in generale certi riferimenti (come i Mogwai) erano imprescindibili. I Deafheaven dunque dovrebbero essere più correttamente definiti post ruock, nel senso che il gruppo di San Francisco è riuscito a far accettare al mondo mainstream tutti quegli elementi classic e alternative rock che l’austerità indie prima e l’ostentazione trap poi avevano messo al bando. Resta il fatto che ho sempre trovato difficile da digerire – mio limite, lo so – la vocalità bruciata di George Clarke, quei suoi ululati ferini che dettano la linea alle canzoni. Qualche volta aveva provato altre soluzioni, senza dare l’impressione di crederci davvero.

Tutto però cambia con Infinite granite, destinato a invertire la polarità della fama del quintetto: è molto probabile infatti che sarà il primo disco dei Deafheaven amato da chi odia i Deafheaven, mentre chi li segue sin dai tempi del big bang Sunbather potrebbe non gradire la svolta dream pop che era stata anticipata dal clamoroso singolo Great mass of color, che qualche mese fa ha mandato fuori di testa l’internet. Infinite granite è l’abbandono quasi totale della simbologia sonica del gruppo: gli Slowdive (ascolta l’intro in delay della bellissima Shellstar) e i Nothing (i riff in progressione di In blur) sono praticamente parenti stretti di questi Deafheaven. La voce di Clarke si schiarisce e si allunga nei riverberi e pare di sentire a tratti un Maynard James Keenan più sciolto e meno cerebrale, pronto a prendere in mano quelle emozioni negate da anni di rabbia tradotta in urla indemoniate. Ascoltando le nuove tracce, sembra che la band non abbia mai fatto altro in carriera ed è questo l’aspetto più interessante dell’album, che è coerente, fluido, ben pensato. L’unico vero dubbio è se deve essere considerato come un disco da mettere fra parentesi, in attesa di un prossimo lavoro che possa riportare la band alle mitragliate del passato (la chiusura feroce di Mombasa è un indizio). Nel frattempo, vuoi vedere che i Deafheaven sdoganano lo shoegaze?