Quando nel 2007 esce Sursum corda, i Cosmetic vengono definiti come un grande gruppo shoegaze italiano. Poi la band prende altre strade sonore, sia pure rispettando gli stessi punti base – uno fra tutti: schierarsi sempre dalla parte dei fragili, nonostante questi tempi difficili in cui sembra che abbiano vinto non i forti ma i prepotenti. Plastergaze, il nuovo album in uscita domani 15 marzo 2019 per To Lose La Track e Lady Sometimes Records, è forse il miglior lavoro dei Cosmetic, da catalogare sotto l’etichetta canzoni delicate con suoni enormi. Se ne parla in questa intervista con il cantante e chitarrista Bart.
Spiegare che musica faccio ai miei colleghi è un problema
Come devo chiamarti? Bart o Trab?
“Io conduco una doppia vita, di solito mi vergogno di dire ai miei colleghi che suono una musica strana, quindi mi affido agli pseudonimi. Usare il mio nome e il mio cognome mi rompe un po’. Alla fine vanno bene sia Bart che Trab. È un gioco”.
Perché non vuoi che i tuoi colleghi sappiano che suoni?
“Non hanno il mio background musicale, dunque per spiegare loro che cosa faccio ci vorrebbe mezza giornata, al termine della quale non ci capirebbero nulla ugualmente”.
Per loro il rock è Vasco?
“La mia collega dice: Ah, ma te suoni? Non sapevo che tu avessi questo talento. E io dopo le spiego che non è un fatto di talento, ma di passione e di idee. Il talento non ce l’ho (ride)“.
Però la collega ti dà fiducia, dicendo che hai talento. Non è poco.
“Lei magari pensa che sono bravo perché canto. Quindi se partiamo da quel presupposto diventa difficile spiegare che faccio una musica in cui la voce non si sente neanche (ride)“.

Sono andato a rileggere un’intervista che ti avevo fatto per Rockit nel 2007. Definivi le vostre canzoni “domande per rispondere a domande senza risposte”. Dodici anni dopo ti ci rivedi?
“Quella era una citazione dei Marta Sui Tubi, che non ascolto dal 2007, mi sa. Diciamo che non mi piace dover dare istruzioni o creare un manifesto attorno alle canzoni. I brani sono sempre interpretabili e la maniera più giusta di rapportarsi ai nostri testi è quella di lasciarsi coinvolgere, in modo che ci sia uno scambio di energie. Per esempio uno dei nuovi pezzi ha un titolo provocatorio, Una razza minore, ma non è che diciamo che esiste davvero una razza minore”.
Nei testi mostri il tuo lato debole e sembra che non te ne freghi nulla che qualcuno durante un’intervista ti possa chiedere: perché lo hai scritto?
“Noi cerchiamo condivisione, senza insegnare niente a nessuno. Non ci dispiace farci vedere così. È come se dicessimo: Guarda, siamo pronti a fare il primo passo, le cose per noi stanno così, non ti preoccupare, puoi aprirti e dire ciò che puoi e vuoi. Uno dei temi che trattiamo è che come persone abbiamo ancora tanta strada davanti prima di raggiungere i nostri obiettivi, ma non siamo nemmeno così disperati da non sapere che fare della nostra vita”.
La mia famiglia non mi ha mai spiegato che i soldi servono, a un certo punto della vita
Mi ha colpito un verso di In faccia al mondo, che fa così: “Ti direi di non essere come me, di non crescere come me, ma tanto è inutile. Perciò usami come un alibi, di’ che tuo padre era un fallito”. È autobiografico?
“Sì, è autobiografico (lunga pausa). Sono molto grato per come sono stato cresciuto, ovvero con molta libertà e anche con delle possibilità. Il problema è che la mia famiglia non mi ha insegnato a fare i soldi (ride). La dico meglio: non mi hanno mai spiegato che i soldi servono, a un certo punto della vita. Questo brano dunque è una riflessione un po’ amara, un dialogo in cui dico a mio figlio che se cresce come un cazzone la colpa è mia. All’inizio la traccia era veramente negativa, ma mi dispiaceva che mio figlio un giorno potesse leggere quel testo, quindi poco prima di registrarla ho tirato fuori un altro verso, La tua natura è portentosa e sono sicuro che tu risplenderai, che ha stemperato questa negatività. Un figlio è altro da te, lo vedo anche con i miei due bambini: sono sicuro che se la caveranno, faranno meglio di me e sapranno risplendere. Peraltro diventeranno anche più alti di quanto sono io e solitamente chi è alto riesce a fare carriera”.
Teoria interessante.
“Facci caso: tutti i grandi direttori commerciali e i venditori di successo sono alti”.
Quanti anni hanno i tuoi figli?
“Uno 7 e l’altro quasi 5″.

Che immagine di te pensi che avranno i tuoi figli quando leggeranno i testi che hai scritto?
“Mi sento abbastanza libero di fare ciò che faccio senza preoccuparmi del resto. Mi porrei il problema se nei testi declamassi qualcosa di ben preciso, se facessi vedere gli anelli e le catene o se dicessi puttane“.
Oggi i tuoi figli ascoltano i Cosmetic?
“A me capita di ascoltare ogni tanto i dischi che sto registrando, quindi sì, li ascoltano, hanno le loro preferite. Il piccolo in realtà ancora non si interessa, al grande invece piacciono Tamara, che vuole sentire sempre per via del dettaglio del tatuaggio della protagonista, Inetti, Lenta conquista. Ascolta però anche Ghali, Rkomi, Tedua“.
È molto sul pezzo, insomma.
“Assolutamente. Peraltro alcuni rapper e trapper della nuova scuola milanese mi hanno gasato, quindi le canzoni senza parolacce gliele faccio sentire. È giusto che abbiano uno sguardo su quello che sta succedendo anche se sono piccoli”.
Tu invece?
“Ascolto un bel po’ di roba. Tedua, Broncho…”
Mandami una schermata dei tuoi ultimi ascolti su Spotify, altrimenti non ti credo.
“Non ho Spotify, io ascolto ancora i cd originali. Ti invio una foto degli album che ho in macchina”

In faccia al mondo è uno dei brani migliori di Plastergaze. Mi incuriosisce la parte Van Halen verso la fine. Come mai questa scelta?
“Il pezzo l’ho scritto io al 95%, c’era un po’ di titubanza su quella parte, però suonandola mi piaceva: è un elemento straniante, forse più nostro, sicuramente più rock di ciò che si sente nel resto dell’album. Però non lo definirei Van Halen (ride)“.
Invece sì. Ricorda l’intro di Ain’t talkin’ ‘bout love.
“A me dava l’impressione di un riff tendente allo screamo, un po’ epico”.
Van Halen è epico. Comunque siete finalmente tornati con Plastergaze a fare ciò che sapete fare meglio, ovvero lo shoegaze. Come mai ci avete impiegato così tanto?
“Volevamo metterci in discussione. Io avevo una voglia tremenda di sperimentare. Però se ci pensi ciò che è bello ascoltare nello shoegaze è presente anche nella musica lo fi, psichedelica e in robe come quelle dei Raein. Insomma, ci siamo ritrovati con mio fratello Mone, il batterista che ha curato la registrazione nella sala prove a Sogliano al Rubicone, e da lì è ripartito tutto. Lo shoegaze ha diverse sfumature che puoi ottenere combinando vari ingredienti, ma non sempre ciò che ottieni è valido. Per esempio i Deafheaven: non riesco a farmeli piacere. Stessa cosa gli Slowdive, che non mi ero mai cagato più di tanto perché preferisco robe sporche e irruente. Eppure il loro disco del 2017 mi è piaciuto tanto, forse per la produzione meno anni Ottanta. Una razza minore è un tributo a quel disco: è il pezzo più Slowdive che abbiamo mai fatto”.
Ero a casa ingessato ad agosto, una merda assoluta, però avevo tirato fuori tre pezzi shoegaze
Il titolo del disco, Plastergaze, ha un evidente riferimento ai gessi per gli arti rotti. Sembra quasi che voi vogliate in qualche modo raccontare ferite esteriori o interiori che magari vi riguardano direttamente.
(muore dalle risate) “In realtà c’è una motivazione ben precisa. I primi pezzi di questo disco sono stati scritti durante il tour dello scorso disco. Però quei due o tre pezzi che hanno dettato la direzione sono nati mentre ero a casa con la gamba sinistra ingessata. Ero al telefono con Davide Brace, gli dicevo sono qui ingessato, è agosto, è una merda assoluta, però mi sono usciti tre pezzi shoegaze. Lui allora mi ha suggerito di chiamare il disco Plastergaze e ci siamo immaginati gente su un palco che fa shoegaze premendo i pedali col gesso. Ci ha fatto molto ridere. La cosa assurda è che dopo tre settimane Straccia, il chitarrista, si è rotto il femore della gamba destra. Era destino”.
Di ferite però l’album parla eccome. Le ultime parole dell’album sono: “Si rimargina col tempo ogni ferita grazie a te”. Penso che la frase rappresenti bene Plastergaze: da una parte tormento, dall’altra speranza.
“Sì, è quello che facciamo. Quel testo peraltro l’ha scritto Straccia. Il brano aveva rischiato di non finire sul disco perché il giorno prima di chiudere le registrazione ancora non avevo il testo. Ne avevo scritti quattro, ma nessuno andava bene, allora Straccia si è incazzato e l’ha fatto lui. Ho cambiato giusto un paio di righe, perché Alice diceva che non le sembrava un pezzo nostro”.
È vero che Alice, la bassista, ha iniziato a suonare lo strumento per la prima volta otto mesi fa?
“Lei è stata ospite in studio, poi è diventata ospite dal vivo, infine si è inserita in pianta stabile nel gruppo cantando in tutti i 45 concerti del 2017. Così le ho chiesto di imparare a suonare il basso, ma lei mi rispondeva che era impossibile. Alla fine ha raccolto la sfida ed è andata bene”.
Qual è la genesi della copertina del disco?
“Nel 2017 siamo diventati molto amici dei Submeet, un’ottima band. Uno di loro, Zannunzio, fa dei lavori molto particolari utilizzando macchinari analogici, tv, oscilloscopi e altre cose strane. Ci ha mandato un po’ di lavori e alla fine oltre che della copertina si è anche occupato dei visual che stiamo pubblicando un po’ per volta su YouTube. L’impaginazione invece l’ha fatta Alessandro Cavallini“.
Pensi mai al fatto che i Cosmetic, pur con i vari cambi di formazione, esistono dal ’97?
“Sì, ci penso. Però la situazione all’epoca era molto diversa. Nel ’97 ero il più piccolo del gruppo e suonavamo con bacchette cinesi e chitarre scollegate. Mi ricordo che nel giugno di quell’anno mio nonno – che era un batterista di liscio – aveva disobbedito a mia mamma e mi comprò la batteria prima che arrivasse la pagella. Il livello insomma era quello, non è che girassimo nei club. Fino al 2008 ho suonato con Balz e Ico, con cui avevo fondato i Cosmetic, poi nel tempo è iniziata la girandola di formazioni e io sono finito per essere il più grande della band”.
All’epoca che cosa suonavate?
“Cover. Nirvana, Green Day…”.
Le storie più belle iniziano sempre con una cover dei Nirvana.
“Nella mia scrittura credo che si sentano ancora molto. In giro però sempre più persone si affrancano dai Nirvana”.
Peggio per loro.