Cercare la bellezza nelle parole non è e non deve essere una prerogativa di poeti, cantautori, rapper o spin doctor. Da sempre c’è una componente testuale decisiva – quanto e forse più dei muri di distorsione – nella definizione dell’estetica delle band che fanno parte della scena shoegaze e dream pop. Eppure se ne parla poco, anzi zero: come se sotto quelle chitarre impastate di riverberi, quei bassi rotondi e quelle batterie leggere e ossessive non ci fosse posto per nient’altro. Tanti gruppi shoegaze non usano i suoni per giocare a nascondino con la loro verità esistenziale: al contrario, amplificano il rumore e allungano gli spazi tra le note per inserire frammenti di vita, sogni, morte e rinascita. Uno dei miei testi preferiti è brevissimo, praticamente una frase sola: “I killed all the rainbows and the species”, in This bright flash di M83. Nella mia interpretazione, mi sembra un modo incredibilmente efficace, diverso e lirico di descrivere l’orrore della guerra senza mai parlare esplicitamente di conflitti o di bombe.
Quello dei testi shoegaze è un tema che dunque vale la pena approfondire con l’aiuto di due band, un cantante e un giornalista. La discussione è però aperta e chiunque voglia intervenire è il benvenuto.
Sebastian Lugli (Rev Rev Rev)

“Personalmente non vado matto per i testi narrativi, preferisco quelli che lasciano spazio all’immaginazione di chi ascolta. Associare la musica a un significato preciso e univoco mi è sempre sembrata una grande menzogna. Sarò strano, ma apprezzo invece la glossolalia dei Cocteau Twins e (molto) l’uso geometrico della voce di Crazy for you degli Slowdive. Per il resto quando si parla di shoegaze non posso fare a meno di partire dai My Bloody Valentine. Liriche che non raccontano e in genere neppure descrivono, ma innescano le suggestioni ipnotiche della musica. Sono testi che decantano sulla superficie della notte, che dalla privazione del sonno distillano un altro livello di veglia. «Turn my head into sound», si sente in Sometimes, e anche i concetti si volgono in suono, come per tornare idea pura. Niente corpo quindi? A dire il vero c’è erotismo da tutte le parti, e non troppo nascosto (gli esempi abbondano: To here knows when, Slow, Cupid come…). In Loveless la sintesi che mi convince di più, poche pennellate ben assestate e il suono si fa materia come in Only shallow dove, con continui riferimenti alla morbidezza e leggerezza, la voce più sensuale di Bilinda accoglie l’ascoltatore in uno spazio uterino. Siamo alle visioni ipnagogiche, appena prima dei sogni. I legami del linguaggio saltano come schemi a fine partita, stiamo entrando nell’album più onirico di sempre, e sembra del tutto inevitabile che all’incorporeo ci si arrivi proprio attraverso il corpo (icastica la successiva Loomer: «Tiptoe down to the holy places»)”.
Cristallo

“Il nostro pezzo shoegaze preferito è Mercy dei Mojave 3. Quando un testo comincia con «Your virgin light is a golden flame but it’s burning, it’s burning fast now», ci si può solo aspettare che prosegua migliorando di battuta in battuta. La struttura del brano è circolare e quindi in qualche modo si avvolge su se stessa. Nonostante il ritornello sia tutto giocato sul non vedere e il non sentire, «Mercy I can’t see your heart, I can’t feel your love» suona come una specie di rivelazione. Forse questo è uno dei passaggi più incredibili del pezzo che attraverso la negazione si svela e si illumina.”
Claudio Cataldi (Seashell Records)

“Il talento di Neil Halstead si vede anche dal fatto che riesca a stupire pur trattando un tema abusato, come quello del sogno. Poche cose possono essere più intime e personali di un sogno, eppure in Celia’s dream assistiamo al racconto di un sogno in terza persona. Non quello dell’autore, ma di una lei («She’s gone to ride an angel’s breath / gone to taste a dream»), alla cui dimensione onirica anche noi abbiamo accesso, da ascoltatori. E questa dimensione onirica avvolge il cantante, e le due esperienze si fondono l’una dentro l’altra: chiamando lei le ombre si allontanano («And every time I call her / a shadow crawls away»), ma tutto sfuma e scompare proprio quando le percezioni si fanno più nitide («and all the time I feel her / I feel her fade away»). (Incidentalmente, una delle cose che preferisco è scovare, sepolto tra le tracce di un disco, il titolo del disco stesso: «She told me that she loved me / love, just for a day»)”.
Riccardo Cavrioli (Indie For Bunnies, Rockerilla)

“Contano più i fatti che le parole. Dicono. Poi però ti ritrovi anche a sentire che ne uccide più la lingua che la spada. Ecco perché sarebbe ingiusto dire che nello shoegaze contano solo i suoni, le chitarre distorte, la sensazione di stordimento che provocano basso e batteria. Ingiusto, sì. L’uso della voce è fondamentale in questo genere, certo, perché vero e proprio strumento, generatore di suggestione e ipnosi. Ma la voce produce parole e non conta solo come sono dette, ma anche cosa dicono. Come fa Piotr Fijalkowski, leader degli Adorable, che ci confessa le sue paure, il suo smarrimento, di fronte al tempo che passa e alla dimenticanza. A To Fade In brilla, struggente e intensa, non solo per trame musicali che richiamano House of love e un assolo da pelle d’oca, ma proprio per quel testo in cui l’autore coglie la dissoluzione ma non l’accetta («And I don’t want to be a faded memory, all I want is to be me»), aggrappandosi disperatamente alla luce e non al buio («I don’t want to fade out, I want to fade in»). E una volta sentite non si dimenticano più”.