Non tengo in mano la chitarra da parecchi mesi. È una Jazzmaster che mi fa disperare: a differenza della Telecaster, fidata compagna di mille disavventure che è in grado di rimediare da sola e in presa diretta alla mia imperizia tecnica, la Jazzmaster è una chitarra sadica se ne frega di me, delle canzoni che voglio comporre, dei suoni che voglio sentire. L’accarezzo, le parlo, la corteggio: la sua risposta arrogante e dispettosa è una scoreggia valvolare quando va bene, oppure un acufene shoegaze quando va male. Così se ne sta lì a giudicarmi, muta e inquietante come l’avviso di una multa che cerchi di dimenticare, ma che prima o poi dovrai pagare.
Winter Gardens, Tapestry. Pronti via: ballad in attesa della supernova, pop pesantemente elettrico, post rock di crescendo irrisolti e di dettagli preziosi, arpeggi che si trasformano in riff perfetti per buttare giù le arene. I Winter Gardens hanno un volto buono per ogni occasione. L’avevamo detto in passato, lo ribadiamo adesso: fantastici già così.
Submotile, Segregation. Questo 2020 è così: un anno tra parentesi, sospeso in una quotidianità assurda. La risposta resta la musica, scudo contro i cattivi pensieri, barriera contro lo scoramento. Gli italo-irlandesi Submotile alzano il ritmo, caricano i suoni e scatenano le distorsioni. E mi piace pensare che il cuore di tutto il loro discorso sia questo: segregati sì, arresi mai.
Sol Marineris, Carry each other. Se Trent Reznor decidesse di darsi allo shoegaze, probabilmente suonerebbe in maniera molto simile a questo progetto canadese che fa del rumorismo armonico un concetto chiaro, diretto, assordante.
Ten Million Lights, Shine so bright. La musica che i Ride non vogliono più fare viene proposta da questa band statunitense, la cui scrittura pop irrobustita di psichedelia ad ampio wattaggio e satura di distorsioni gira bene e non perde un colpo.