Ricordo quando, quasi dieci anni fa, ascoltai per la prima volta Gemini, disco numero due di una band napoletana che non conoscevo, gli Stella Diana. Ne rimasi folgorato: forse per la prima volta sentivo in Italia una band che sapeva suonare shoegaze senza paura e, soprattutto, in maniera credibile. In quel periodo non si parlava di italogaze e non si parlava di rinascita shoegaze. Insomma, all’epoca non c’erano – ancora – gli Slowdive e nemmeno i My Bloody Valentine: c’erano però gli Stella Diana. Oggi Dario Torre, cantante e chitarrista, si presenta in versione solista con 永遠, ovvero Eien: un disco di brani strumentali scuri, atmosferici, cinematografici. Una musica che è come un film senza immagini: ovvero, visionaria.
Non sono mai sicuro di nulla, ho solo probabilità
Dario, partirei dalla fine di un’intervista che hai rilasciato recentemente. «Il futuro potrebbe non accadere mai e vale per me e per gli Stella Diana. Ora c’è Eien, poi si vedrà».
«Lo confermo».
Cominciamo con leggerezza, insomma.
«Non ho molta fiducia nelle cose che devono accadere, non faccio progetti in divenire, non mi pongo il problema se le cose devono succedere. Il passato non lo posso controllare, mi concentro sul presente. Non sono mai sicuro di nulla, ho solo probabilità».
Che probabilità ci sono di sentire nuove cose degli Stella Diana?
«Direi il 50%. I pezzi ci sono già, però non so che svolta prenderanno. Vorrei fare un disco molto scuro e pesante, in linea con il mio umore in questo momento. Devo però vedere se i ragazzi sono d’accordo. Inoltre lo vorrei con poche parti cantate».
Che problemi hai con il cantato?
«Non voglio essere ripetitivo. Ogni disco degli Stella Diana credo che abbia portato il gruppo un gradino più su, quindi mi dispiacerebbe realizzare degli album che ricordino lontanamente Nitocris e 57. Non me lo perdonerei. I dischi che abbiamo realizzato peraltro cominciano ormai a essere tanti».
A proposito, come mai non si trova più in giro Supporto colore, il vostro primo album? C’è solo un video su YouTube.
«Sono affezionato a Supporto colore perché è stato il primo disco, realizzato con il nostro vecchio batterista Massimo Del Pezzo, che è un grande ed è stato presente anche in Gemini, registrato in Spagna da Marco Morgione, che è un amico fraterno. Ma Supporto colore, Gemini e 41.61.93 soffrono di un problema in comune: sono cantati in italiano. A me questa cosa fa soffrire, perché tante critiche che mi hanno rivolto sono state assurde. Se canti in italiano ti accostano regolarmente a Ferretti, Verdena, Marlene Kuntz. È una cosa per me intollerabile perché non ascolto questi artisti, non fanno parte del mio retroterra».
Vado a memoria, ma non credo di aver mai fatto questi paragoni.
«Tu sei stato uno dei pochi. Nella maggior parte dei casi scrivevano che i miei testi erano alla Verdena. La verità è che è complicato rendere questo tipo di musica cantando in italiano. Poi, questi album sono anche piuttosto disomogenei. In Gemini c’è Raffaele Bocchetti (ora con gli In Her Eye) che è spettacolare alla chitarra, però alcuni pezzi sono riempitivi. Infatti se senti Alhena ci sono i migliori cinque brani di Gemini, quelli con un filo logico».
Concordo.
«Poi magari sono un tipo molto autocritico, forse Giacomo Salzano (basso) la pensa diversamente e probabilmente pure Raffaele. Anche 41.61.93 mi dà molti grattacapi: è il primo prodotto da Giacomo e lui è stato bravissimo, però è un disco che non sento mio, poteva essere fatto meglio. Inoltre non mi piaceva la formazione a quattro, quella che ha inciso il disco. L’unico chitarrista che può suonare con noi è Raffaele, nessuno può prendere il suo posto, quindi per quanto mi riguarda il chitarrista che c’era all’epoca di 41.61.93 era inutile».
Un saluto all’altro chitarrista, poverino.
«Sono fatto così, purtroppo».
Le canzoni di quei dischi le suoni dal vivo?
«Più me lo chiedono e meno ho voglia di farle» (ride).
Shohet però è bella.
«Ho provato a fare in inglese Isabeau. Dovrei riscrivere i testi. Potrei proporre pure Navarre».
Anche Shohet, dai.
«Pure quella. Ci sto lavorando. Però devo capire se il testo in inglese funziona. Per me Shohet è una canzone molto complicata da cantare in italiano, anche per questo non la voglio eseguire dal vivo».
Perché?
«Mi tocca nel profondo. È un testo molto personale. Mi dà qualche problema doverla fare, ci sto male quando la canto, vorrei evitare quel coinvolgimento magari con un testo in inglese».
Quello che apprezzo è che sei in un certo senso orgogliosamente fuori moda. Cantavi in italiano quando conveniva farlo in inglese, canti in inglese ora che conviene farlo in italiano.
«O sono fuori moda o sono stronzo. La linea è molto sottile. Di sicuro sono poco furbo. La musica che facciamo è molto difficile da rendere in italiano, ti porta ad allungare le vocali, ti costringe a un cantato troppo declamatorio».
Tu ci riuscivi bene.
«In alcuni pezzi forse sì, ma è difficile. L’inglese ti permette di essere più nascosto: puoi esporti anche molto sul personale senza che gli altri debbano per forza comprendere ciò che canti. Poi io ho sempre composto in inglese, sin da ragazzo».
Parliamo di 永遠, ovvero Eien.
«Eien era il titolo del mio romanzo che ho scritto dopo Dominio, la parola significa eternità».
E poi?
«E poi mi sono rotto le palle, non volevo più scrivere nulla».
Nella vita uno deve fare esperienza, poi non è detto che debba proseguire per quella strada
Sei piuttosto draconiano.
«Sai il fatto? Nella vita una persona deve fare esperienza, poi non è detto che debba proseguire per quella strada. Io ho scritto due libri, va bene così, mi sono tolto lo sfizio. Siccome però non si butta nulla nella vita, Eien mi sembrava un buon modo per chiamare questo progetto. Dario Torre suona veramente male» (ride).
Perché un disco di musica strumentale?
«Non volevo più cantare, volevo fare qualcosa di diverso dagli Stella Diana. Con la band devo pensare a tutto: agli effetti, a cantare, a ricordare i testi, a fare il coglione sul palco, a suonare. Preferivo una cosa strumentale, tipo musica da film».
Ti senti più vicino a questi brani rispetto a quelli con la band?
«La cosa è molto strana, perché in effetti in Eien gli Stella Diana ci sono comunque: Giacomo era con me il giorno delle registrazioni, ha mixato e arrangiato, ha aggiunto un sacco di synth. Lui è l’unica persona – insieme con Marco – della quale mi fido, può fare quello che vuole. Giulio Grasso (batteria) ha suonato delle percussioni nell’ultimo pezzo che poi Giacomo ha distorto. Mi è sembrato di tornare indietro nel tempo, a quando io, Giacomo e Marco facevamo pezzi strumentali su un quattro piste. C’è molto del mio vissuto: atmosfere, sensazioni, emozioni, ricordi».

Quali ricordi?
«La gioventù (ride). Era tutto nuovo, magari non conoscevi un accordo, non sapevi cos’era un delay o una chitarra accordata a criterio, però sperimentavi e ti divertivi. Io e Giacomo siamo cresciuti insieme: si componeva robe che magari erano schifezze, ma a noi sembravano bellissime. C’era molta ingenuità e purezza. Oggi facciamo tutto in modo più professionale: quello che faccio come Eien non lo posso fare con gli Stella Diana proprio perché è qualcosa di molto istintivo e con un approccio meno professionale. Con la band devi mantenere un certo contegno. Qui sono più indulgente verso me stesso».
Farai concerti?
«No, non potrei mai, dovrei essere un quadrumane, ogni pezzo ha tre o quattro chitarre. Non ricordo nemmeno che cosa ho fatto. Ho composto i brani il 29 dicembre 2019, mentre registravo il disco. Ero nella mia stanza insieme con Giacomo che aveva con sé il Mac e due microfoni. E mi sono lasciato andare».
Allarghiamo il campo e parliamo del decennio appena concluso. Secondo te lo shoegaze è davvero riuscito a fare il salto di qualità oppure alla fine ce la siamo cantata fra di noi?
«Quello degli Slowdive è il disco migliore di tutti quelli usciti: hanno fatto meglio dei Cure, degli U2, degli Interpol. I Ride hanno dato una bella botta, il loro non si è trattato di un ritorno fine a se stesso, si è parlato di nuovo dei Six By Seven».
Degli italiani che cosa ne pensi?
«Quando uscì Gemini forse eravamo soli come band, d’altronde siamo pure i più vecchi. Oggi molti gruppi si sono sciolti ma molti altri sono nati, ci sono tanti concerti, c’è il Flux, ci sono i siti. Ovviamente parliamo di shoegaze, ovvero nicchia: è sempre stato così sin da quando è nato. Ma la situazione mi sembra cambiata in meglio».
È un bel modo per chiudere: un po’ di ottimismo.
«Io sono ottimista sugli altri, non su di me» (ride).