New York, 1 agosto 1981. La Warner-Amex Satellite Entertainment lancia MTV, canale tematico musicale atto a promuovere canzoni rock e pop in modo breve, veloce, accattivante e – perché no? – emozionale. Arriverà in Europa sei anni più tardi, per trovare la sede principale a Londra nel 1988. Cosa succede proprio lì in UK, negli stessi anni? Fanno clamore le voci, le musiche e i video delle star più attraenti e di successo. Prendiamo per esempio David Bowie, che recluta soggetti gravitanti attorno al club Blitz di Londra per il video di Ashes to ashes, dando visibilità al movimento dei New Romantic.
Ma la storia di cui vi voglio parlare è diversa e riguarda qualcosa che sta al di là dei giri giusti: lo shoegaze e il dream pop. Perché venivano realizzati i video di questi brani? Per motivi promozionali? La motivazione non è importante, dato che siamo su un altro pianeta rispetto a quello della musica pop tradizionale. Quel che conta è l’arte che si cela dietro a un’inquadratura, a una tecnica di ripresa, a un particolare utilizzo delle luci. Si tratta di visioni che prendono la nostra mano e conducono il viaggio che inizia all’incedere di ogni nota. Per raccontare tutto questo, ecco una selezione di dieci dei videoclip shoegaze e dream pop più belli di sempre.
Gli shoegazer sanno volare in alto e portarci con loro
Cocteau Twins, Pearly dewdrops’ drops, 1984 – Sovrimpressioni, colori poco saturi e al limite della trasparenza. La luce è diffusa e morbida, veicolata in modo etereo dalle vetrate della cappella nel Sanatorio Holloway nella cittadina di Virginia Water, in Inghilterra. Ci si sposta tra sogno e realtà, come in una pièce teatrale. I piani sequenza e le riprese a macchina sembrano evocare ora Elizabeth Fraser che canta, ora i Cocteau Twins al completo. A dare un tocco più rarefatto e sperimentale è la comparsa di immagini in negativo degli alberi del parco, forse per spezzare uno stile preraffaellita quasi eccessivo.
My Bloody Valentine, To here knows when, 1991 – La musica brucia e ciò che si vede non è da meno: le chitarre e i corpi si disfano fino a divenire pura astrazione. Fantasmi caleidoscopici, movimenti nel tempo e nello spazio. L’annullamento di chi aspetta l’amante perduto, che no, non si guarderà mai indietro e non tornerà. “Come back to here knows when”: chi sa quando? Nessuno. Quindi ecco il buio degli ultimi secondi che spegne ogni luce, ogni speranza.
Slowdive, Alison, 1994 – Feedback e distorsioni accompagnati da immagini grezze in bianco e nero. Abbiamo due narrazioni che si intrecciano: quella della band live, professionale e studiata, e quella che si immerge nelle feste e nell’intimità dei ragazzi. La quotidianità di Alison è caotica, piena di risate e di sigarette mai spente: sembra di essere lì immersi e dispersi, un po’ dazed and confused, per ritrovarsi alla fine su un muro di fotografie, che non hanno fissato i nostri passati ma solo alcuni futuri possibili.
Warpaint, Warpaint, 2011 – Si corre e si nuota, in un mare in technicolor e su un terreno in b&n. Le quattro eroine di Los Angeles sono le protagoniste di entrambi i mondi di questo sogno sonoro nitido, lamentoso e dai tratti mediorientali. Visioni che paiono tratte da sequenze del cinema muto, ma attraversata la superficie dell’acqua si trasformano in riprese morbide e fluttuanti nella densità oceanica. Manca il respiro, il corpo pesa. È così facile infatuarsi di un colore dolce e distorto al di là della porta d’uscita dalla realtà. Ma questa non è una via di fuga. Si può solo tornare a galla.
Wild Nothing, Paradise, 2012 – Un racconto tra le nuvole e le cascate, con protagonista l’attrice Michelle Williams. Un gusto per un montaggio veloce a ritmo sincopato e molto amatoriale. Singolare la scelta del regista di aggiungere il voiceover di Williams che legge A word child, racconto del 1975 di Iris Murdoch: “Everything is love, everything will be love, everything has to be love, everything would be love, everything would have been love”. Un libro rosso tra le mani e un sogno fatto tra le nuvole: le cascate del Niagara, un paradiso, proprio come l’amore sa essere.
Lowtide, Alibi, 2017 – All’apparenza sembra un film, per la scelta dei 16:9 e per l’atmosfera asettica e fantascientifica che subito traspare dalla palette colori così fredda. Una stanza con corpi immobili a terra, come automi senza energia. Il risveglio arriva con un microfono, che dà loro voce e vita per cantare in playback il testo dei Lowtide, proiettato su un muro, in una sorta di lyrics video. Attorno, dei rettangoli concentrici si generano e si rigenerano, in dialogo con la tradizione del cinema d’avanguardia degli anni Venti del Novecento: i film astratti e “puri”, ossia composti da figure geometriche e privi di narrazione.
Still Corners, Black lagoon, 2018 – Il viaggio inizia in un deserto che ricorda molto quello di Zabriskie point di Michelangelo Antonioni. Anche qui c’è una ragazza, tipicamente americana, che con la sua auto attraversa il deserto, solo che in questo caso nulla va storto e in solitaria raggiunge la costa californiana. Ogni immagine racconta l’atmosfera calda e malinconica della California, fino al tramonto, fino a che il surfista nell’oceano si fa silhouette tra onde luccicanti e psichedeliche. Gli Still Corner si vedono ogni tanto in sovrimpressione mentre suonano in studio di registrazione, come se fossero degli storyteller ben nascosti.
Beach House, Drunk in LA, 2018 – Un sogno a occhi aperti tra ville e interni portoghesi e un bosco che mi pare il posto più familiare di questo mondo. Sento il profumo della macchia arborea, il bacio del sole sulla pelle. Ci si immerge totalmente all’interno della narrazione grazie all’utilizzo del punto di vista soggettivo, che peraltro lascia ampio spazio all’introspezione: le visioni dei cavalli che corrono – fluidi e liquidi – sono pura invenzione. Si potrebbe giurare di aver avuto – almeno una volta nella vita – un sogno così.
Be Forest, Gemini, 2019 – Uno di quei video da vedere esclusivamente al buio, che è cupo ma curioso. Girato in low-key, dove la prevalenza di neri fa emergere visioni astratte “split in two”, come sussurra Erica. Maschere ancestrali, riflessi nell’acqua, fuochi e galassie lontane. Un viaggio tra le stelle che rimanda alla sequenza psichedelica di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. E poi i volti dei Be Forest si susseguono, presi come dall’esterno di una navicella spaziale fluttuante verso l’altrove.
Chromatics, Time rider, 2019 – Sovrimpressioni, autostrade, frame in stile gothic ironicamente rosa. Poi uno scarto di registro: a metà tra la computer grafica e la ripresa tradizionale, ci sono frame dai colori sfalsati e psichedelici che ci trasportano in un’altra dimensione, assolutamente surreale e accattivante. L’immagine di un occhio, che si ripresenta più volte, ricorda quello di Un chien andalou di Luis Buñuel: una dichiarazione di poetica che intende invitare a osservare in modo diverso.
A passo lento ma sicuro
Nel sottobosco dei videoclip musicali, a partire dall’ondata di freschezza data dall’avvento di MTV, passando per le nuove opportunità di fruizione offerte da piattaforme digitali come YouTube e Vimeo, gli artisti shoegaze si muovono bene, affidandosi a registi che sanno dare una forma visiva ai nostri suoni bruciati e fluttuanti. Non ci si stancherà mai delle sovrimpressioni e delle astrazioni psichedeliche, questo è poco ma sicuro, ma sono certa che, seppur a passo lento, queste opere d’immagini in movimento si eleveranno a un livello ancora più alto di estetica.