Chris Cornell, la voce di una generazione che ormai non esiste quasi più

Sono passato dal Deejay Time al rock alternativo nell’arco di una sola stagione, ma molto importante: il passaggio dai tredici ai quattordici anni. Non è un semplice segmento temporale. È l’istante in cui smetti di guardare la tua città con curiosità e inizi invece a giudicarla per quello che è: un posto di merda. A supportare con forza le mie convinzioni di adolescente supponente (con ancora molti anni davanti prima di scivolare nell’età del dubbio e del tutto sommato) c’erano questi tizi americani, i Soundgarden. Suonavano un rock rumoroso e poco accomodante, pieno di controtempi assurdi e riff acidissimi. A fare la differenza, però, era soprattutto il cantante, Chris Cornell, un ragazzo dalla voce così potente che poteva assordare un’arena intera senza bisogno di un microfono.

Gli uomini onesti

Ciò che le canzoni raccontavano non riguardava un mondo parallelo al mio, ma al contrario toccava da vicino una certa idea di rabbia che ogni adolescente alla scoperta della vita vera conosce bene. All’epoca – gli anni Novanta – non parlavo inglese. Così, quando mi feci tradurre il testo di Black hole sun rimasi particolarmente colpito da una frase che Chris Cornell sussurrava amaramente: “Il tempo è andato per gli uomini onesti”. Era non solo l’ammissione di una sconfitta storica. Era il conferma che avevo ragione io e che la musica era il mezzo migliore a mia disposizione per tirare una riga e dividere il mondo in due fazioni: chi capisce e chi subisce. Ma soprattutto, per la prima volta sentivo che la tristezza non era più il peccato dei deboli di spirito: era un sentimento per gente vera, capace di incutere paura agli altri. Non a caso io, che ero poco più in forma di un punto e virgola, quando ascoltavo i Soundgarden mi sentivo diverso, potente, minaccioso: era finalmente giunto il momento per me di rivendicare un’appartenenza. E il mio modo di vestirmi divenne standard: jeans, Converse rosse, maglietta nera con il nome di una band grunge stampato in bella vista.

Nessuna finzione

“Ogni parola che ho detto è ciò che intendo” (Slaves & bulldozer). È come se il corto circuito degli anni Novanta – un malessere che non ha un vero nome ma che ha messo a tacere troppe voci – non si fosse mai arrestato, fino a radicarsi per decenni nel cuore di un uomo che aveva tutto e che non voleva più niente. È sconvolgente pensare che il tempo non abbia lenito, smussato, attenuato il dolore di Cornell. Non c’era finzione in lui, non c’era quel nichilismo automatico che si accende appena premi play e va via subito dopo l’ultimo accordo. Non erano pose buone per il marketing della rabbia adolescenziale, né per qualche reunion pensata per i fan – un tempo giovani, oggi alle prese con figli, affitti e sogni di borghesia. Era tutto vero. Così il Cornell cinquantenne che cantava dal vivo le frasi drammatiche di The day I tried to live era mosso dagli stessi sentimenti suicidi del Cornell trentenne che le aveva scritte: quella canzone deve essere stata una ferita che dopo tutto questo tempo continuava ad aprirsi nel cervello del leader dei Soundgarden. E noi invece lì sotto a pogare, come in un party pieno di invitati sbagliati in cui non si capisce nulla e il festeggiato neanche si vede in giro.

Heisenberg al posto di Cornell

Chris Cornell
No one sings like you anymore

Oggi in metro davanti a me c’è una tizia dall’apparente età di diciott’anni. Indossa una maglietta di Breaking bad molto bella che sembra però seppellire un decennio in un secondo. Il fatto che sulla t-shirt ci sia Heisenberg al posto di Chris Cornell la dice lunga sul peso specifico della musica di ieri: era stata tentata la rivoluzione e alla fine gli ammutinati del rock hanno perso. I giovani guardano giustamente altrove, loro non c’erano nel 1994 e molti non sanno che cosa è successo in quegli anni. Magari questa ragazza nemmeno si chiederà perché questo ennesimo cantante morto è stato, lui sì più di altri, la voce di una generazione che ormai, per molti, non esiste quasi più.