Se l’esordio, Just fade away, era un omaggio all’epica malinconica del dream pop, adesso la faccenda è diversa. I Glazyhaze tornano infatti con un album, Sonic, che sin dal titolo mette in chiaro le regole d’ingaggio: impeto, fuoco ed emotività. Sono canzoni che parlano d’amore e del suo contrario, la disillusione, all’interno di un suono che è al tempo stesso solido e onirico, schiaffi in faccia e carezze d’addio. Avere vent’anni oggi è un gran casino – ma a quaranta, spoiler, non cambia poi un granché – e questi brani sembrano dirci che la musica continua ad avere il suo potere magico: stringere a sé i cuori fragili. Cioè noi. In occasione dell’uscita del nuovo disco, domani 21 marzo 2025, la band veneta si racconta a Shoegaze Blog tra sonorità loud, porcospini blu e – ehm – bassisti dimenticati all’Autogrill.
Sonic esce quasi in contemporanea con l’arrivo della primavera. C’è un significato particolare?
Irene Moretuzzo (voce, chitarra): «Non ce ne siamo resi conto, però è una bella cosa. A me l’inverno non piace molto. Forse anche gli altri la pensano come me, siamo persone che soffrono l’inverno, il brutto tempo si riversa nel nostro umore. Quindi la primavera è una boccata d’aria fresca».
Francesco Giacomin (batteria): «Per la verità io sono mega autunnale, anche invernale. Soffro il caldo. Di sicuro è un disco mezzo primaverile e mezzo autunnale».
Un disco da cappello di lana
Però mi dà più un’idea di album da maniche lunghe
F: «Sono d’accordo. Da maniche lunghe, da cappello di lana. Però a volte ci sono belle giornate invernali con il sole e altre in cui piove o nevica».
Lorenzo Dall’Armellina (chitarra): «Sonic si adatta bene alle stagioni e ai vari momenti della vita di ognuno».
È da ascoltare ad alto o a basso volume?
I: «Sul nostro merchandising c’è scritto che è stato mixato per essere ascoltato ad alti volumi».
Come hanno fatto i Cure in Disintegration.
F: «Mi hai sgamato, l’ho preso da lì».
È una citazione che apprezzo. Come mai il primo singolo è stato What a feeling?
L: «Magari ci si poteva attendere qualcosa di più vicino a Just fade away, invece è stato un ritorno diciamo inaspettato, tendente al punk».
Sonic in effetti ha un suono più pieno e aggressivo rispetto all’album precedente.
L: «Il primo era un disco di scoperta di certe sonorità. C’erano cliché voluti, dalla copertina al titolo. Nel frattempo abbiamo ascoltato tanta musica. È molto loud, ma in maniera non estrema, non ci siamo concentrati solo sull’impatto».

Siete fanatici dei suoni delle chitarre?
L: «Non mi sento un nerd, ho due o tre cose, ma mi fermo lì. Mi piace di più ragionare sulla produzione dei brani, anche sugli strumenti degli altri».
I: «Sono ancora meno nerd di Lore. Come lui amo seguire la produzione, che è la parte più bella insieme ai live. Peraltro, i pezzi li compongo sulla chitarra acustica, per farti capire il mio livello di fanatismo sull’elettrica».
Mi ha colpito sentire «hold me tight» sia in Forgive me che in Nirvana. Irene, descrivi l’amore attraverso l’immagine di un abbraccio, sottolineando il bisogno di stringersi forte.
I: «L’amore è uno dei temi principali di cui scrivo, è molto importante nella vita. L’affetto per me va inteso in maniera fisica. Anche se in Warmth parlo del fatto di poter stringere una persona non solo con le braccia, ma pure con gli occhi, quasi ad avvolgerla».
Ho sempre la sensazione che qualcosa possa rovinare tutto
In un altro brano, Slap, canti «It feels like I’m happy, but you know I’ll get a slap in my face». Che cosa racconta di te?
I: «È una sensazione strana, di una pace che è un po’ falsa, quando capisci che la felicità che stai provando è un’illusione: sai che arriverà uno schiaffo simbolico. Ho sempre il presentimento che qualcosa possa rovinare tutto».
Scrivere canzoni ti aiuta ad affrontare questa disillusione, chiamiamola così?
I: «La musica è la cosa più bella che faccio nella vita, è una fonte di gioia, riesco a staccare da tutto, poi essere con i miei compagni Glazyhaze mi aiuta tanto».
Il titolo Nirvana richiama alla mente il trio di Seattle, ma Cobain non c’entra nulla.
F: «Credo di averlo scelto io, perché di solito durante le preproduzioni do dei titoli provvisori ai pezzi. In realtà il beat mi ricordava 1979 degli Smashing Pumpkins. Poi Irene ha inserito la parola “nirvana”, ma senza riferimenti alla band, e alla fine il titolo è rimasto. Tra l’altro c’erano dei giri che mi ricordavano una b-side di In utero».

La copertina com’è nata?
F: «Avevamo l’idea di prendere una foto vista su Pinterest: due ragazzi con un fiammifero in bocca e lo sfondo blu. Alla fine siamo andati più sul minimale, tenendo il colore azzurro che poi è un involontario collegamento a Sonic, il cartoon».
Quindi vi state candidando per la colonna sonora di Sonic 4.
(ridacchiano) F: «Assolutamente».
Prima dei Glazyhaze che cosa facevate?
L: «Per me e Irene, che abbiamo vent’anni, è il primo progetto. Suonavamo da soli, poi, trovandoci, è stato naturale lavorare insieme alle canzoni. Dopo si è aggiunto Fra, io e lui abitiamo abbastanza vicino, e a poco a poco è partito tutto».
I: «Ho cominciato a usare chitarre elettriche, pedali e amplificatori grazie ai Glazyhaze. Prima scrivevo musica in italiano con la chitarra acustica e il contrabbasso, facevo una roba molto diversa. Ho portato alcuni miei elementi, mentre Lore mi ha trasmesso l’interesse per il suono».
Vocalmente ti sei adattata al gruppo?
I: «No, il mio timbro è tenue e morbido, non mi sento una cantante come non mi sento una chitarrista. Mi percepisco di più come una scrittrice, tra virgolette. Onestamente non avrei mai pensato di avere una band».

Ascoltavate shoegaze e dream pop?
I: «Alle superiori, durante il Covid, ascoltavo una decina di dischi al giorno. I classici Slowdive, My Bloody Valentine e Ride li ho conosciuti più per curiosità che per passione. Ma allora non avevo i mezzi per fare qualcosa di simile»
L: «Non sapevo nulla, non avevo un background. Io, vabbè, giravo con i pantaloni attillati e le Vans nere, ascoltavo metalcore, i Bring Me The Horizon. Poi, avendo un delay Boss, ho iniziato smanettarci un po’ e mi sono accorto che c’era la possibilità di aumentare le ripetizioni, creando armonie ambient».
Insomma, avete seguito il flusso sonoro del delay che vi ha portati a Sonic.
I: «Abbiamo scoperto lo shoegaze strada facendo, ma non ci definiamo solo in quel genere: abbiamo parecchie influenze e ci sembra un’etichetta limitante».
Qual è il vostro guilty pleasure musicale?
F: «Sono un grande fan dei Blink-182, è la band per me».
I: «D’inverno, come ti dicevo, sto stramale, e quest’anno mi sono concessa di ascoltare M¥ss Keta, è una roba che metto su e mi risolleva il morale».
Sei una ragazza di Porta Venezia, quindi.
I: «No, zero, però mi tira su. Come fanno un sacco di rapper americane».
F: «Oltre al rap, ascoltiamo tantissima trap, sia italiana che americana».
Quella volta che abbiamo dimenticato il bassista all’Autogrill
Qual è la cosa più assurda che vi è successa in tour?
F: «La prima volta che ci siamo recati in Germania abbiamo dimenticato Seva (Prokhorov, ndr), il bassista, all’Autogrill. Mezz’ora di strada senza di lui».
Ma tipo Tre uomini e una gamba?!
(risate) I: «Avevamo un tour organizzato un po’ così, dovevamo fare Conegliano (Treviso, ndr)-Berlino, partenza di notte per suonare alle 18. Eravamo in mezzo alla neve. Di mattina ci siamo fermati a fare benzina, Seva è sceso per andare in bagno, Francesco stava dormendo, Lore è andato a pagare e quando è tornato siamo ripartiti. Non me ne ero accorta. A un certo punto ci ha chiamati al telefono: ci siamo girati e lui non c’era».
Un caro saluto a Seva. Per concludere, chi fa bella musica in Italia in ambito shoegaze?
I: «Siamo grandi fan dei Chiaroscuro, li abbiamo incontrati in occasione di un nostro live a Bologna, sono tutti stra fioi».
L: «Di gruppi magari più vecchi che spaccano o hanno spaccato ce ne sono tanti: Be Forest, New Candys, Soviet Soviet. I Chiaroscuro sono regaz come noi, è una cosa figa».
