Fingere che non te ne importi nulla: gli Interpol e i vent’anni di “Turn on the bright lights”

A ventuno anni mi ritrovo, come chiunque, in fuga forsennata dalla mia adolescenza. D’altronde ventuno anni è una frattura esistenziale molto più forte dei diciotto. Quest’ultima cifra rappresenta infatti la maggiore età soltanto sulla carta, dato che in realtà non è altro che un ultimo cuscinetto comodo prima di ritrovarsi senza protezioni a sbattere la testa contro ogni spigolo del mondo. Nell’arco temporale che va dai quattordici ai venti hai solo verità assolute da difendere e diffondere: l’adolescenza è schierarsi con coraggio e sapere esattamente di avere la ragione dalla propria parte. La giovinezza, invece, è un cambio di paradigma decisivo: a partire dai ventuno anni il punto di caduta delle tue convinzioni si modifica radicalmente e ti ritrovi con troppi dubbi da condividere e poche certezze alle quali affidarti.

Per quanto mi riguarda, i ventuno arrivano nel 2002 e si tratta principalmente di capire che cosa diavolo succederà alla mia vita. Così per un certo periodo mi aggrappo con disperata ostinazione a una canzone scura e decadente, una sorta di ballad noir che racconta una New York al ralenti, quasi malmostosa, sicuramente degradata e respingente, una città che sembra trascinarsi stanca nelle sue metropolitane oscene e nelle sue strade scombinate. C’è soprattutto un verso che diventa subito la mia personalissima mini biografia per i successivi due decenni (e oltre): «I’m sick of spending these lonely nights training myself not to care». Fingere che non me ne importi nulla: ecco, in quella New York sconvolta rivedo ogni mia passata frattura emotiva, ogni mia presente incertezza da ricalibrare, ogni mio futuro passo falso da rinnegare. Perché in verità quel brano non racconta un posto, bensì si immedesima in chi non ha un posto. Quella band si chiama Interpol, quel brano s’intitola NYC, quel disco è Turn on the bright lights, uscito il 20 agosto del 2002, esattamente vent’anni fa.

Il cantante, Paul Banks, pare una reincarnazione di Ian Curtis, solo che, a differenza della voce dei Joy Division (che appartiene a un altro secolo benché certi tormenti siano grumi di colla che tengono attaccate fra loro generazioni diverse), i vent’anni di questo artista americano corrono quasi in parallelo con i miei e dunque è a me che si rivolge quando racconta che cosa c’è che non va in lui: sa che capisco esattamente come si sente. Va detto però che è difficile storicizzare un disco che in realtà è tuttora una necessità irrinunciabile per tantissime persone. Anche per questo motivo, sbaglia chi insiste nel racconto emotivamente suggestivo di un album come fotografia a livelli di grigio della New York accecata dall’undici settembre. Al di là dell’aspetto meramente temporale – Turn on the bright lights è stato scritto prima che la voragine chiamata Ground Zero diventasse la pietra tombale della nostra contemporaneità – quello che resta è la sensazione che queste canzoni rappresentino la contronarrazione imprevista che ha contribuito a dare il via alla rivoluzione indie rock che caratterizzerà gli anni Zero: non più fenomeno di nicchia chiuso in se stesso, ma colonna sonora generazionale. Che si tratti del post punk crepuscolare di Untitled, delle vie di fuga shoegaze di PDA o della corsa a perdifiato di Roland, gli Interpol sono un classico istantaneo, qualcosa di più della somma algebrica di Joy Division e Psychedelic Furs. Gli Interpol, insomma, sono parte di noi. E continueranno a esserlo.