Lo stranissimo pop alla deriva di Merli Armisa

In una bella recensione pubblicata su Rockit si parla di frammentarismo ed è una definizione azzeccata perché non definisce nulla, dunque è un ottimo punto di partenza per provare a raccontare il pop alla deriva di Merli Armisa. Un artista di cui non si sa nulla se non che: 1) non c’è una pagina BandcampSoundCloud, 2) su YouTube le canzoni sono raccolte dall’algoritmo nel topic Various Artists, 3) è bravo. Quelle del suo disco d’esordio, Lleb, sono tracce che hanno una costruzione strana, slegata, un minimalismo che si basa su due direttive principali – elettronica a bassa fedeltà in formato GarageBand e cantautorato con gli occhi verso il soffitto – e su innumerevoli diramazioni. È come ascoltare contemporaneamente un album degli Hood, uno dei DIIV e uno dei Ruby Haunt: sono nomi che solitamente non si sincronizzano, però arrivano tutti e tre a incrociarsi nel percorso di Merli Armisa. Ed è un big bang ovattato, tenue, leggero. Ma intenso. Ci sono haiku post punk da ripetere sottovoce come esorcismo alla nostalgia («Ho visto le tue mani scorrere sulla mia testa»). C’è una quotidianità di piccoli dettagli ed esistenzialismo concreto che pare di sentire la disperazione senza pose dei Fine Before You Came («Restando da solo ho scoperto di essere disordinato secondo i comuni canoni di ordine»). C’è soprattutto una sorta di slowcore homemade che in Italia pare un linguaggio senza sbocchi ma che qui trova un senso compiuto.