Tutte le volte che torno a Palermo, nella cameretta in cui ho vissuto una buona parte della mia vita finisco spesso per notare qualche dettaglio microscopico che rivela con dovizia di particolari un’esistenza intera. Sopra il mio vecchio stereo Kenwood c’è per esempio una cassettina c-60 TDK – datazione approssimativa 1998 – ed è come se stessi tenendo in mano i pro e i contro della mia adolescenza. (PRO: nessun disertore tra i miei capelli; l’addome non ancora aerostatico per le tante Forst che sarebbero arrivate di lì a poco; lo sguardo dolente di Lance Henriksen in Millennium; un talento certificato nel rutto a comando; la miglior musica che abbia mai ascoltato. CONTRO: i compiti per casa; l’aver stonato pesantemente Smells like teen spirit durante una festa a scuola; gli inverni troppo lunghi e le estati troppo brevi). La copertina, insomma, è un quaderno che sembra parlarmi in diretta dagli anni Novanta: righe grigie su un fondo bianco ma un po’ ingiallito, uno strato di polvere diventato parte integrante dell’involucro e una ventina di titoli scritti con una grafia extraterrestre, come brutte linee incrociate male che formano frasi che non si leggono, ma al massimo si intuiscono con un ampio margine d’errore. Ecco, il nastro tira fuori una chicca perduta: Legacy dei Mansun.
Lo specchio nero di Wonderwall
Il quartetto ha ballato solo nell’ultimo scorcio di fine anni Novanta, in cui band e artisti del Regno Unito davano le carte al resto del mondo (è sempre stato così, d’altronde). «La musica è soprattutto divertimento, intrattenimento. È davvero OK solo se piace alla gente e se la fa divertire», si presentarono in questo modo, all’inizio della loro carriera. L’intrattenimento secondo i Mansun trova una spiegazione perfetta in Legacy, una sorta di anti inno brit pop, uno specchio nero di Wonderwall: laddove la malinconia working class imbastita da Noel Gallagher aveva comunque un deus ex machina bene in vista («Maybe you’re gonna be the one who saves me»), nel pezzo dei Mansun c’è una disperazione che non ha alcuna via di fuga («Life is wearing me thin, I feel so drained, my legacy, a sea of faces just like me») e che si dissolve in una rassegnazione che sfiora il nichilismo («Nobody cares when you’re gone»). Nel mezzo, una psichedelia pop in tre atti, con una strofa che si evolve su un arpeggio dreamy (e un drumming non scontato), un ponte che si avvita attorno a un crescendo d’impatto e, infine, un ritornello che si apre a sorpresa tra vertigini Radiohead e concretezza Duran Duran. Spicca la voce di Paul Draper, timbro pulito ed estensione siderale, che canta il disgusto di vivere – più che la fragilità dell’esistenza – con una limpidezza che non si sente spesso nel mainstream e che i Mansun riusciranno a replicare con ulteriore veemenza forse solo in un’altra canzone, I can only disappoint U, formidabile singolone post punk che di fatto chiuse per sempre i giochi della band. Il brit pop, in fondo, ha fatto anche cose buone (non sono poche, a dirla tutta).