Used to listen to this album over and over and over and I was sad for a very long time. I’m still sad.
Vincent Lane, un utente YouTube
Un mio caro amico per prendermi in giro alle volte mi chiede: “Quali canzoni di cantanti che si lamentano stai ascoltando in questo periodo?”, dandomi poi una pacca sulla spalla, di quelle amichevoli che sottintendono una perculata stile “coraggio, buonuomo”, alla quale solitamente replico con tre pugni ben assestati sul suo deltoide destro – siccome li sferro io, lasciano lo stesso segno sulla pelle che lascerebbe un colpo di tosse. È una scena che a me fa sempre ridere perché in fondo è vero: l’80% delle volte – e mi tengo stretto – ascolto canzoni di cantanti che si lamentano e che bruciano il loro cuore a ogni strofa e a ogni ritornello, come se le loro fossero confessioni troppo intime da rivelare senza lo scudo di una musica emotivamente partecipe che amplifica il messaggio senza giudicare.

They’re a group many don’t seem to remember
Brandon Stosuy, Pitchfork
Ecco: i Codeine. Le parole del giornalista di Pitchfork non sono campate in aria, perché la band statunitense è sempre stata un caso a parte, al di fuori di tutte le etichette e al di fuori di ogni giro. Lo chiamano slowcore, ma la parola non riesce a contenere il dolore assoluto di queste canzoni ridotte ai minimi termini, un post punk a bpm nullo che racchiude in sé tutta la tristezza del mondo. Pensa, è il ferragosto del 1990 – trent’anni fa esatti – quando esce Frigid stars, il primo capolavoro dei Codeine, il disco che inaugura un periodo che non sembra molto rassicurante: gli anni Novanta. Ancora nessuno lo sa, ma la festa edonistica ed esagerata inaugurata da Reagan è finita da un po’ e il conto da pagare lo ritroviamo nella rassegnazione violentissima – nel fragore sussurrato – delle canzoni dei Codeine, forse i primi a far vedere in che razza di fallimento esistenziale siano andati a cacciarsi gli Stati Uniti. Lo racconta bene per esempio in New Year’s, un classico istantaneo di folk scuro e proto post-rock. “Feel so sad, so bad today. All our friends have gone away”: perfetto, definitivo, spietato.
Nelle tracce dei Codeine c’è spazio soprattutto per la colpevolezza, non per l’assoluzione. Prendi D, drammaticissima traccia d’apertura di Frigid stars. La D del titolo è quella dei voti in pagella nelle scuole degli Stati Uniti: una sufficienza risicata. “D for effort, D for intent, D because you pay the rent” e poi ancora “I want you to need me, not to feed me”. Stephen Immerwahr, il cantante e bassista, con queste parole va oltre il racconto della tristezza. È una gogna terribile messa a punto da un uomo che si trasforma in carnefice e vittima di una vita patetica e senza scampo. Ovvero, la resa di una persona che ha fallito e che con una voce esausta si lancia in una supplica con cui sembra certificare la peggiore delle sconfitte: sentirsi inutile agli occhi di chi ti vuole bene. Non proprio la canzone che ti aspetti di ascoltare durante il maxi pranzo di ferragosto con la famiglia, insomma. Oppure prendi Old things, con quell’inciso cantato a filo di voce che sa di sentenza – “Things don’t last too long. But when they do they last too long” – mentre attorno la musica è una minaccia costante di apocalisse sonora. I Codeine, dunque, danno il via libera al decennio nero dei Red House Painters, degli Slint, dei Low, ma anche al nichilismo del grunge, sia pure con mezzi diversi: lì c’è una musica che azzanna i tormenti di una generazione attraverso il grido e il rumore, qui c’è un suono che attraverso un’armonia dolente e rarefatta riesce a mostrare una disperazione personale verissima e, di fatto, pressoché invincibile.