L’Italia di oggi ha di nuovo bisogno del Teatro Degli Orrori

Foto di Roberto Serra

Che cosa è più rilevante oggi, una canzone o un tweet qualsiasi di un politico qualunque? Angélique Kidjo non ha dubbi e per rispondere allarga di parecchio il discorso, in modo da non essere fraintesa: “Chi si ricorda i discorsi di Hitler? Nessuno”, mi dice al telefono, durante un’intervista per l’edizione milanese di Repubblica. È una riflessione interessante, soprattutto in un momento in cui l’agenda politica è diventata una propaganda al cubo, ovvero una questione di viralità e non di priorità. Il senso delle parole di Kidjo è chiaro: la propaganda passa, la musica resta. In effetti, quasi nessuno ha letto il Mein kampf, però tutti conosciamo a memoria Imagine. È una generalizzazione, ovviamente, ma rende bene l’idea, anche perché in effetti la musica sa ricostruire persino sulle macerie del potere peggiore. L’Italia attuale non è una nazione hitleriana, però sta mostrando un volto brutto e aggressivo non solo al livello politico, ma anche – e soprattutto – al livello base, il più importante: quello della convivenza civile. È infatti una nazione impaurita che fa paura: un girone infernale di rancori reciproci, un tutti contro tutti in cui ognuno è indulgente con se stesso e spietato con gli altri. L’Italia ostile del 2019 non è però una sorpresa degli ultimi dodici mesi, perché era già stata raccontata per filo e per segno dal disco del 2015 di una band che sa quello che dice, Il Teatro Degli Orrori. Eravamo stati messi in guardia quattro anni fa, insomma. E forse all’epoca non abbiamo ascoltato con attenzione l’avvertimento di Pierpaolo Capovilla contenuto in una delle tracce di quell’album: “Con la paura, madre di ogni violenza, non si scherza mai”. Riascoltate oggi, queste parole non sembrano un monito, ma una profezia. Così come profetica sembra la traccia intitolata Il lungo sonno, amara analisi dello stato di salute del Pd.

L’invidia del resto, lo dicono i sociologi, è il sentimento più diffuso. E tanto vale darci dentro. (Disinteressati e indifferenti)

Capovilla è sempre stato uno che non le manda a dire, ma con questo disco sembra avere ben più di un diavolo per capello. Il cortocircuito di un paese intero che sta svendendo la propria anima – con l’illusione di ottenere in cambio un succulento pugno di mosche – lo manda in bestia. Si sente subito nella prima traccia del disco, Disinteressati e indifferenti, in cui viene ribaltato il punto di vista che dovrebbe essere alla base del progresso di una società: se prima c’era il noi, oggi ci sono tanti piccoli io in contrapposizione fra loro. “Uno su mille ce la fa, stai a vedere che sei proprio tu”, ghigna Capovilla, mentre dietro di lui la band fa a fettine gli strumenti e tira fuori un suono pazzesco, tridimensionale e – vivaddio – spaccatimpani: noise credibile come se ne sente sempre meno in giro. Nel brano, Capovilla prende di petto il punto cruciale di una società crudele: “Non aver pietà o rispetto per nessuno. Parola d’ordine: nutrire l’avvoltoio”. Farcela a dispetto di tutti: è la normalità degli ultimi anni e chi rimane indietro è fregato (“Se tuo fratello resta al palo mandalo affanculo”).

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Lo sanno tutti che in Finmeccanica i soldi veri li fanno con le armi. E noi qui, ad amare i nostri bambini. Ma che senso ha? (Lavorare stanca)

In questo contesto, il lavoro è diventato un abisso: una volta che ti ingoia, rimangono di te soltanto ossa, umiliazioni e rimpianti. “Non ci serve un appartamento, non ci serve una famiglia, non ci nascondiamo più”, si sente in Lavorare stanca. E in Bellissima: “La vita è un buco scavato a sacrifici, imprecazioni e turni di notte”. Chi ha assaggiato la precarietà sa benissimo di che cosa parla Capovilla. “Ci sono individui che questo maledetto mondo lo capiscono eccome”, si sente nella canzone più bella, Slint, straziante gorgo di disperazione nera e di umanità scartata, con tanto di evidente riferimento alla band di Spiderland. Ecco: ci sono album che in qualche modo scacciano la tua solitudine. Il disco eponimo del Teatro Degli Orrori è uno di quelli. Perché nell’attuale tempesta di relazioni interpersonali vissute tutte col coltello tra i denti, queste canzoni ti fanno capire con la forza necessaria – con quel briciolo di forza che ci resta – che forse c’è ancora speranza. Che forse ce la possiamo ancora fare. Che forse dall’abisso si può anche scappare per riuscire a rivedere le stelle. Qualcuno allora richiami all’azione Il Teatro Degli Orrori: l’Italia ha bisogno di un nuovo controcanto. Ora più che mai.