Le dieci copertine shoegaze più belle di sempre

Foto di Ilaria Sponda

Se siamo qui ad ammirare le immagini delle copertine dei nostri album preferiti lo dobbiamo a un uomo: Alex Steinweiss, direttore artistico della Columbia Records. Era il 1939 quando questo personaggio decise di rivoluzionare la discografia sostituendo le anonime buste monocromatiche che avvolgevano i vinili con dei progetti grafici che hanno dato il via a un’arte nuova, regalando finalmente un’estetica visiva alla musica. Da allora le copertine sono diventate sempre più popolari, addirittura mitiche. Si sta con un album tra le mani e improvvisamente si sprigiona un’ampia gamma di emozioni inesplicabili, anticamera del fuoco che scaturirà dall’ascolto. È un valore aggiunto che ha saputo regalare dei piccoli capolavori anche negli ambiti sonori di nostra competenza. Ecco dunque le dieci copertine shoegaze più belle di sempre.

10. Velvet Cacoon, Dextronaut (2008)

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Mistero: questa la prima parola che viene richiamata da questa band black metal, dark ambiente e shoegaze di Portland. Desolazione e decadenza, psichedelia e atmosfere magiche si condensano in un artwork semplicissimo: una nube nera e fumosa attorno al nome della band e al titolo dell’album. Una rappresentazione visiva del loro voler essere fuori dagli schemi, ombre metropolitane e creature dai mille volti e ambiguità.

9Yuck, Glow & behold (2013)

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Un album uscito dopo due anni di silenzio, in seguito all’abbandono della band del fondatore Daniel Blumberg. Una bozza, un disegno buttato giù come un seme che presto o tardi darà i suoi frutti. Delle certezze ci sono: quelle dipinte dalla solida base di riferimenti shoegaze e indie rock anni Novanta della musica. Tutto il resto è un astratto e inafferrabile. E così io nel disegno ci vedo qualcosa che interesserebbe solo a Freud.

8. Pale Saints, The comfort of madness (1990)

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La bizzarria del loro primo album salta subito all’occhio. Un gatto, che potrebbe essere quello di Alice, laggiù nel Paese delle Meraviglie, dove sono tutti matti e invidiabili per il coraggio di essere loro stessi. Il suono shoegaze si colora di tinte dream pop e in modo da creare uno scenario da sogno, fantasia, viaggio senza ritorno.

7. The Jesus and Mary Chain, Munki (1998)

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Suoni profondi e scuri e una contrastante superficie dorata come la luce di un tramonto perfetto sull’obiettivo di una Minolta, quella del pop di marca britannica dei magici anni Novanta. La copertina dell’album incarna alla perfezione la meraviglia di un progetto tanto giocoso quanto sorprendente, dopo la pausa di quattro anni che ha visto la stasi dei Jesus and Mary Chain.

6. Ride, Going blank again (1992)

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L’artwork del secondo album degli intramontabili Ride è stata commissionato al fotografo londinese Christopher Gunson. Un volto bianco e scomposto con delle fette di cetriolo sugli occhi. Un umorismo british dietro il quale si cela qualcosa di drammatico, vicino all’espressionismo tedesco. O ancora, una sorta di maschera pirandelliana che nasconde ognuno di noi, quando il vuoto pervade anima e corpo.

5. Lush, Gala (1990)

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Il debut album dei Lush, che li ha introdotti in Giappone e in America. Da un noise violento a un’effervescenza pop: in questi lembi spaziano le sonorità del disco e l’estetica dell’immagine. Un buio opaco e rumoroso in cui serpeggiano fumi sgargianti e inafferrabili.

4. DIIV, Is the is are (2015)

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Una copertina sinestetica che colpisce e rimane impressa in ogni minimo particolare negli occhi di chi l’ha tra le mani. Le fantasie e le narrazioni che ne scaturiscono, ben si addicono al percorso sonoro intrapreso da Smith nel suo secondo album. Diverse velocità, diversi umori, un paesaggio onirico. Un’ora di musica per dare sfogo alla guerra di pensieri continua, ai demoni e alle voci che urlano anche nei giorni più normali e insapori.

3. My Bloody Valentine, Loveless (1991)

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Astrazione, saturazione, ipnosi: a questi elementi tende il visual proposto dai My Bloody Valentine. I contorni sfumano in una trance, la chitarra, protagonista indiscussa del muro del suono che si viene a creare, muove violentemente l’aria e provoca emozioni vere e drammatiche di contorno all’amore, forse il solo antidoto alla noia e all’ansia della solitudine.

2. Beach House, Depression cherry (2015)

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I Beach House non potevano trovare modo migliore di rappresentare il contenuto del loro album. Una distesa di velluto rosso scarlatto, una macchia infinita di succo di ciliegia. Un quadro di Rothko preso nel particolare: il colore entra in relazione con l’anima e comporta reazioni emotive inattese. Allo stesso modo le tracce dell’album sono delle bombe inattese di tragicità e apertura liberatoria alla vita.

1. Soviet Soviet, Endless (2016)

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Un’esplosione che ricorda l’immaginario di Zabriskie Point di Antonioni, con emozioni che si sgretolano potentemente più che simulacri del capitalismo. All’orizzonte l’infinito ignoto dell’eternità, in cui è pericoloso annegare il pensiero. Meglio soffermarsi sulle polveri sottili dei sentimenti, rimasugli spesso invisibili delle emozioni. Un artwork che colpisce dritto al cuore, violentemente, come la poetica della band, mai ripetitiva e debole, sempre efficace e vera.