Sigur Rós, “Ágætis byrjun”: quella bellissima magia aliena

La copertina dell'edizione del 20mo anniversario

La pioggia orizzontale rende obsoleto il concetto di ombrello a Reykjavík. Ma questo non ferma una quindicina di ragazzine che rappano in islandese su un palco mezzo sgarrupato che si trova alla fine di una via del centro. Alcune sono vestite come delle piccole Wonder Woman col trenta per cento di sconto, altre invece sembra che abbiano appena dato diritto privato all’università. In ogni caso, tutte hanno una sacrosanta voglia di fare un po’ di baldoria. Poco distante il cartellone del Solstice Festival annuncia Wu-Tang Clan, FKA Twigs e Kelis. Chiedo allora a una presunta diciottenne dove posso ascoltare roba alla Sigur Rós. Non è stata una buona idea: lei mi guarda come se fossi Gaetano Curreri al Gods of Metal e capisco che non è aria. Di fatto, in Islanda cercavo malinconia e ho trovato euforia. Eppure basta uscire da Reykjavík e percorrere in senso antiorario la strada principale del paese, la Hringvegur, per trovare quello di cui ho bisogno: spazi infiniti, desolazioni necessarie, panorami che riempiono lo sguardo per sempre. L’Islanda è una parentesi del mondo. E le canzoni dei Sigur Rós, lentamente, ti accompagnano a sfiorare il circolo polare artico con tutta la meraviglia aliena che sanno esprimere solo loro.

Per capire un’emozione

Era il 12 giugno 1999 quando uscì Ágætis byrjun: sembra banale dirlo oggi, ma all’epoca la comunicazione viaggiava davvero molto più lentamente e le distanze erano effettivamente il doppio o il triplo rispetto a oggi. In quel periodo non sapevo nulla dell’Islanda, se non che era una nazione in cima alla terra in cui una performer dall’aria eccentrica, Björk, aveva iniziato a smontare il pop una nota dopo l’altra (memorabile e un po’ surreale una sua esibizione al Festivalbar ’95). I Sigur Rós, dal canto loro, erano la perfetta rappresentazione dello splendido isolamento islandese: lingua madre, brani lunghi, ritmi al ralenti, ovvero le caratteristiche che il mercato della musica internazionale mette ai primi tre posti nella classifica delle cose da evitare se vuoi avere successo nelle hit parade che contano. Eppure è andata all’opposto di come molti forse avevano immaginato. La critica ha adorato da subito un disco come questo, nonostante servisse il copia e incolla per scrivere correttamente i titoli di ogni traccia. E il gruppo ha raggiunto presto lo status di headliner nei festival più importanti. Peraltro la formula scelta, una sorta di post rock diluito e denso al tempo stesso che incrocia suoni e narrazioni con la tradizione folk del paese nordico e con il pop orchestrale britannico, è qualcosa che non ha un corrispettivo in nessuna band, nemmeno nei Mogwai e nei Radiohead, le due realtà che alla fine degli anni Novanta erano considerate più affini ai Sigur Rós per stile e intransigenza artistica. Ágætis byrjun è un album che non ho mai smesso di amare e che tuttora non ho idea di che cosa parli: il mistero di queste dieci canzoni resta ancora inaccessibile esattamente come quel giorno di due decenni fa in cui le ascoltai per la prima volta. Potrei cercare su Google e trovare mille risposte: ma chi ha voglia di porre domande superflue? In fondo so già che cosa mi dicono i Sigur Rós: per capire un’emozione non c’è bisogno di libretti d’istruzione, per spiegare la magia non serve certo un tutorial.