The Velvet Underground, “Sister Ray”. Fare del caos una via percorribile

Foto di Ilaria Sponda

White light/White heat dei Velvet Underground è un album nero non soltanto per il colore della copertina, ma anche – e forse soprattutto – per il rumore elettrico di Sister Ray, un brano antimelodico, dissonante e tendente all’improvvisazione. I testi del disco, scritti da Lou Reed, raccontano episodi di vita quotidiana, di paranoia metropolitana, riportando descrizioni fredde e asettiche. Così in Sister Ray abbiamo un gruppo di drag queen e dei marinai coinvolti in una storia di dissoluzione, tra eroina, orgie e irruzioni poliziesche. Un uomo è vittima di un omicidio bagnato di indifferenza, che trasuda decadenza morale e assenza di valori umani.

They’re busy waiting for her sailor / Who’s drinking dressed in pink and leather / He’s just here from Alabama / He wants to know a way / To earn a dollar

L’atmosfera delle tracce e l’introduzione di strumenti atipici per il rock, come la viola e l’organo, a opera di John Cale, accentuano la sensazione di straniamento imposta all’uomo moderno della fine degli anni Sessanta. Per tematiche e ambizioni, i Velvet Underground non si discostano troppo dalla Pop Art di Andy Warhol, che ha anch’essa come punto focale l’alienazione dell’uomo all’interno della società postmoderna.

Mi piace scrivere di cose che rappresentano l’umanità. Non conosco altro argomento più importante di questo

È il 1968 quando esce il disco. Nel mondo si celebrano gli ideali di amore e pace sventolati dagli hippie, ma Lou Reed è già oltre, attratto da una visione della società decisamente meno idilliaca: di fatto, i primi segnali della nascente iconografia punk. Nato dunque in un clima di controcultura, il secondo album dei Velvet Underground espande i confini del rock, riducendone però il suono all’osso: in questo senso, Sister Ray rappresenta la più alta forma di anarchia estremista, con i suoi diciassette minuti di beat serrati, di pulsazioni dall’anima rock’n’roll e di missaggi caotici ma potenti.

Una voce nervosa

8594957
The Velvet Underground: Sterling Morrison, Maureen Tucker, Lou Reed e John Cale, 1968 (Photo on Vancouver Sun)

La voce di Reed è nervosa, deliberatamente non intonata, obliqua e distorta. Le sue parole sono soffocate da una strumentazione fusa in un’unica massa caotica e stridente in cui galleggiano tre accordi di base. Sterling Morrison, con la sua chitarra elettrica minimalista e ritmicamente selvaggia, accompagna quella di Reed, mentre Maureen Tucker aggiunge un tocco semplice eppure importante con le percussioni. Fin qui tutto nella norma insomma, tutto nei canoni di un rock figlio dei suoi tempi. Se non fosse che qualcosa di diverso c’è. Intanto scompare ogni riferimento al blues e ai ritmi afroamericani. E poi c’è lui, John Cale, che sposta i Velvet Underground su un piano musicale diverso e avanguardista.

Il suono della rivoluzione

Bisogna infatti soffermarsi sull’organo filtrato da un distorsore per chitarre per capire come mai Sister Ray è diventata radice di molta della musica venuta dopo. Non c’è nulla di definito, non emerge una melodia chiara dall’ascolto dell’album. Solo rumore e tanta onestà: in fondo le uniche scelte a disposizione di chi a vent’anni si ritrova pieno di domande e con zero risposte. A dare aria alla confusione ci si mette anche la registrazione volutamente disturbata da fruscii di fondo, registrata in una sola take, dunque senza manipolazioni, e con un livello di volume in sala di incisione portato al massimo. Disprezzato – all’epoca – da molti, l’album restò in fondo alla classifica di Billboard e solo per due settimane. Si può dire che fu un insuccesso commerciale: ma che importa di ciò che apprezza la gente normale se esistono comunque delle persone che hanno un cuore che batte al suono della rivoluzione? L’unica risposta al dominio della banalità – questo l’insegnamento di Sister Ray – è fare del caos una via di fuga percorribile.