Non ricordo esattamente quando è cominciato. Forse avevo 13 anni, ascoltavo sempre Albertino alla radio e la sua teoria del pump up the volume mi sembrava così figa, trasgressiva, adulta: la cassa in quattro e il basso sintetico & ignorante a rimorchio dovevano essere ascoltati ad alto volume, sfondando timpani, fondendo woofer e rompendo scatole (altrui). Oppure chissà, magari è iniziato quando avevo 16 anni e mi ritrovai per la prima volta davanti a un microfono collegato a una cassa mezza rotta, reggendo un basso scrauso da duecentomila lire e immaginando un milione di fan adoranti davanti a me. Quella volta attaccammo con Smells like teen spirit dei Nirvana e ne pagai subito le conseguenze con la voce, che precipitò immediatamente di un’ottava abbondante e mai più riuscì a risalire di livello e di intensità. O forse nemmeno questo fatto c’entra nulla. So solo che non ho memoria di quando ho smarrito il concetto di silenzio.
Una cascata che diventa ultrasuono
L’acufene è difficile da descrivere: è come una cascata che si finge ultrasuono, s’infila nelle orecchie e s’inceppa da qualche parte nel cervello. Di solito l’acufene non dà pensieri. Le ore diurne infatti mi difendono sempre da questo segnale perenne, persino quando la città va all’assalto con i suoi rumori, il suo caos, la sua mancanza di stile: la marmitta che borbotta al semaforo, per esempio, più che fastidio mi dà sollievo perché cancella l’acufene, togliendogli grinta, energia e ostinazione. La notte invece è un problema. La ninna nanna è un fischio strano che non ha origine e nemmeno fine, resta lì e non va via, almeno finché non arriva il sonno: di solito è sufficiente una puntata di Mr. Robot per chiudere gli occhi e spegnere il rumore. Rami Malek, non avercela con me: giuro che ci riproverò.
È una questione di impatto
Chi sembra non avere problemi di acufene sono gli Airiel. “Alcuni di noi utilizzano i tappi per le orecchie: io no”: a dirlo – con una sicurezza che gli invidio ancora oggi – fu Cory Osborne, all’epoca (era il 2007) bassista e vocalist della band, una delle più significative della nuova ondata shoegaze. Esattamente dieci anni fa, il disco The battle of Sealand rappresentò un momento di svolta per una scena sfilacciata che ancora era lontana dall’attuale vivacità e coesione: un suono potentissimo e pieno di dinamiche – pugni in faccia e sogni in testa – che lasciava presagire un aggiornamento, forse persino un potenziamento, di quella formula brevettata dalla solita triade My Bloody Valentine, Slowdive e Ride. Per fare ciò, gli Airiel avevano optato per una soluzione – volumi altissimi, intensità massima – che tanti sfruttano ma pochi valorizzano.
Suonare forte, con delicatezza
È una definizione perfetta che accompagna da anni gli Airiel e che trova la perfetta messa in pratica con il nuovo album, Molten young lovers. È un disco che mette il necessario furore di rito al servizio di una costruzione melodica mai così matura e convincente. L’inizio di This is permanent è perentorio: rompe dieci anni di attesa con un pezzo che rinuncia al classico crescendo per imporre ritmo, sostanza ed epica assoluta. Dal vivo è probabile che schiacci il pubblico ed esalti la band. Your lips, my mouth è dream pop d’ordine e di emotività: va esattamente dove ci si aspetta e regala una strofa destinata a diventare un classico istantaneo. Keep you ha un arrangiamento che si basa su riverberi abbondanti, melodie piene e ritmi sostenuti: suonare forte, ma con delicatezza, per l’appunto. Gli Airiel dunque dimostrano di essere un gruppo dal quale non si può prescindere. Lo shoegaze è una storia eterna di sonorità che si scontrano e si fondono, si accendono e si dileguano: gli Airiel sono tra i pochi che sanno davvero come si fa.