After hours, Velvets in another view è un ottimo tributo ai Velvet Undergroud di Lou Reed a cura di The blog that celebrates itself. Tra tutte le compilation proposte finora dal sito brasiliano, questa è particolarmente ambiziosa perché il materiale originale è ostico da ricomporre. I Velvet Undergroud sono stati infatti il caos che ha cambiato tutto, figli di un periodo storico – i Sessanta – in cui avere vent’anni ed essere musicisti veri significava spostare i confini del possibile ben al di là di quel tran tran borghese già a portata di mano di chiunque. Lou Reed ha sempre dato l’impressione di spingere al massimo tutto quello che lo riguardava – la musica, l’arte, la sua stessa vita – come se l’obiettivo fosse non solo ottenere il disprezzo dei normali, ma anche spiazzare chi pensava di poter reggere il confronto con lui. Dal disco della banana a White light/White heat, passando per album solisti come Berlin e persino per il tanto contestato Lulu (la storia si ripete, no?), Reed ha continuamente stravolto ogni certezza, lasciando indietro chi meritava di essere lasciato indietro. E nonostante i ripensamenti e le riabilitazioni di quei lavori, molti sono rimasti ancora lì, fermi sulle proprie convinzioni: tipico di quei conservatori che pretendono di essere ascoltati senza mai ascoltare.
Le dissonanze e i riverberi

Le ventisei band che partecipano a questo tributo sono tutte eccellenti e di provata sensibilità shoegaze e dream pop, sia pure con sfumature di volta in volta differenti. I Singapore Sling per esempio la fanno difficile e si accollano il protonoise di Sister Ray. L’impianto dissonante originario c’è tutto, con in più una bella vibrazione psych che rende il pezzo ancora più scuro e disperatamente rumoroso. La Run run run targata Psychedelic Trips To Death rallenta il passo e aumenta le distorsioni, puntando dritto verso una terra di mezzo che piacerebbe sia ai Velvet Underground che agli A Place To Bury Strangers. I Videodays portano There she goes again in una dimensione dream pop piena di riverberi e bellezza, rendendo la canzone familiare e misteriosa al tempo stesso. E poi c’è la reinterpretazione più emozionante, quella che Claudio Cataldi ha fatto di un classico come White light/ White heat: eliminando ogni asprezza e ogni spigolo, Cataldi ha privilegiato un approccio minimale e malinconico, trasformando di fatto il brano in una sorta di confessione privatissima di un uomo – il protagonista del testo – alle prese con droghe, luci, calore e tanta, troppa tristezza addosso.