Il ritorno degli Offlaga Disco Pax per il tour del ventennale di Socialismo tascabile (prove tecniche di trasmissione) è una faccenda sia privatissima che generazionale. La scomparsa di Enrico Fontanelli è una sensazione sorda e costante che non ha via d’uscita: ogni nota risuona della sua assenza. Ma questi brani sono anche la descrizione per conto terzi – Max Collini – del vissuto senza paracadute di un paio di generazioni emotivamente e politicamente decentrate: quel «ci hanno davvero preso tutto» ci riguarda eccome. Dunque è bello e malinconico ritrovarsi di nuovo sotto lo stesso palco, ad ascoltare quelle canzoni in un mondo diverso e spaventosamente cattivo. Ed è bello, anzi bellissimo tornare ad ascoltare la chitarra di Daniele Carretti, le cui sonorità sono come nuvole. A volte trasparenti, fresche e gentili, quasi si trattasse di un eco che colora i silenzi e ridefinisce l’intorno. Altre volte cupe, dense e turbolente, tipo un frastuono ovattato in cui nascondersi. Per la quarta puntata di Senti come suona: semiacustiche, Squier, Slowdive, Felpa. E quegli shoegazer involontari degli Oasis.
Lunedì primo settembre 2025 sarete in concerto al Castello Sforzesco a Milano. Com’è andato questo tour, Daniele?
«Abbiamo fatto quello che dovevamo fare. Però psicologicamente ed emotivamente è stato faticoso. Non è semplice da superare quanto è successo a Enrico, poi eseguire quei pezzi senza di lui… Enrico non era solo un membro del gruppo, era uno dei miei migliori amici. Abbiamo trovato un sostituto molto bravo, Mattia Ferrarini, che è come eravamo noi e come era Enrico: un po’ nerd, con la giusta attitudine. Però ritrovarsi sul palco con un’altra persona non è una passeggiata. Soprattutto per me che ero fermo da 12 anni».
Hai avuto il tuo progetto Felpa.
«Sì, ma era qualcosa di piccolo, tranquillo. Avendo un negozio di dischi è complicato fare altro. Il tour è stato faticoso anche per questo motivo: non ero più abituato».

Qual è stata la tua prima chitarra in assoluto?
«Un’acustica della Yamaha. Come elettrica invece una Stratocaster bianca: volevo la chitarra di Jimi Hendrix. Avevo 14 anni».
Oltre a Hendrix hai avuto altri chitarristi di riferimento?
«Quando ho iniziato a suonare avevo ascolti totalmente diversi, Led Zeppelin, Cream. E poi qualcosa tipo Jam, Paul Weller . Poi, intorno ai 17 anni sono passato al brit pop».
Quali altre chitarre hai avuto?
«Una Epiphone Sheraton, bruttina, ma suonava bene. Dopo ho preso una Epiphone Casino, uguale a un modello che aveva Weller. Sono sempre stato attirato dalle semiacustiche. All’epoca, metà anni Novanta, costava tanto, circa 700 mila lire. È una chitarra che ho ancora adesso. In seguito ho acquistato una Jaguar e poi, nei primi anni Duemila, un paio di Rickenbacker e alcune Gibson».
Oggi che cosa porti con te in tour?
«Una Gibson 330, ma negli ultimi concerti sto usando anche una Squier Jazzmaster mancina che ho comprato tempo fa per modificarla, volevo decorarla con delle mappe, in stile découpage, come faccio con i miei case. L’ho portata da un liutaio per farla mettere a posto e suona molto meglio di metà delle chitarre che ho».
Con le Fender o le Gibson ti deve andare di culo
Le Squier sono migliorate tanto.
«E le altre sono peggiorate. Puoi prendere una Fender o una Gibson standard e ti deve andare di culo che vada bene».
E spendi parecchio.
«Una Jazzmaster normale ti costa quattro volte quello che ho speso per questa. Anche il basso che sto usando è Squier, modello Mustang. Suona uguale a un Precision che avevo preso vent’anni fa».
I pickup della Jazzmaster sono stock?
«Sì e vanno bene. Appena comprata era tutta da sistemare, dalle corde alla tastiera. L’ho schermata all’interno, messa a posto, rifatto i circuiti e ora suona benissimo, tiene ottimamente l’accordatura, non ha problemi».
Come si comportano le semiacustiche con lo shoegaze?
«Ho sempre usato grandi distorti. A volte vanno in difficoltà, magari scappa qualche fischio, ma per il resto sono ok, d’altronde anche le Lush avevano le semiacustiche».

Che accordatura usi di solito?
«Quella standard. In passato ho utilizzato quella in do aperto, ma non è facile da gestire, specialmente dal vivo, devi fare una scanalatura con corde di una certa grandezza. Però era una bellissima accordatura».
Suoni principalmente col pickup al ponte o quello al manico?
«Manico. Per me quello al ponte potrebbe pure non esistere. Ho un problema con le alte e le medie: se non ci fossero, le chitarre suonerebbero molto meglio. Al ponte il suono è piccolissimo. In questo tour mi stanno dando degli ampli insuonabili. Sono abituato con i Fender Vibrolux e Twin Reverb. Quest’ultimo, con i coni da 12, riesco a gestirlo bene».
Qual è il disco che ti ha fatto innamorare dello shoegaze?
«Secondo me ci sono dei pezzi degli Oasis che sono shoegaze. Fa ridere dirlo perché sono stati grandi detrattori di questa musica, ma in un pezzo come Listen up senti un suono nordico, freddo, con chitarre dilatate. Dura oltre sei minuti».
Una scelta insolita.
«Poi ho iniziato ad ascoltare Cocteau Twins, i Ride, quella roba lì. Enrico, infine, mi ha fatto conoscere gli Slowdive. Ascoltava quello che facevo, in quel periodo ci conoscevamo poco, e mi suggerì un album particolare, perché secondo lui dovevo spostarmi su quei suoni. L’album era Souvlaki. Capii immediatamente che era ciò che stavo cercando. Enrico mi consigliò anche il primo dei Low».

Com’è la tua pedaliera?
«C’è lo Strymon Flint che è riverbero e tremolo, l’El Capistan che è un emulatore di un eco a nastro e poi due o tre delay Boss. Come distorto utilizzo principalmente il Blues Driver, semplicissimo, molto figo. La sequenza parte con il distorsore e poi il resto».
C’è un brano degli Offlaga in cui ritrovi in modo particolare il tuo suono?
«Direi la parte con più delay di Kappler e, poi, Sensibile. Che è minimale e dilatata, con poche note, e cresce finché non arriva il distorto. Ma segnalo anche A pagare e morire, dall’ultimo album».
C’è qualche gruppo shoegaze italiano degli ultimi anni che ti ha colpito?
«Mi era piaciuto particolarmente quello dei Mondaze. È abbastanza derivativo, d’altro canto con lo shoegaze non c’è molto margine di lavoro a meno che non metti dentro dell’elettronica, però bello. Di qualche anno fa è I’m calling you from my dreams di Matilde Davoli, mi avevano colpito le chitarre dream pop, avevo anche visto un suo live al Primavera Sound, non sembrava una band italiana».
E ora, Daniele, che cosa accadrà agli Offlaga?
«Io tornerò a fare le mie robe come Felpa, di quello sono sicuro (ride). Ho un disco pronto da un anno e mezzo, ci sono molte chitarre oltre a elementi electro. Sarà una roba su Scerbanenco, un po’ particolare».
